Lev Tolstoj - Guerra e pace. Ediz. integrale

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Guerra e pace. Ediz. integrale: краткое содержание, описание и аннотация

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Scritto tra il 1863 e il 1869 e pubblicato per la prima volta tra il 1865 e il 1869 sulla rivista Russkij Vestnik, riguarda principalmente la storia di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, tra le guerre napoleoniche, la campagna napoleonica in Russia del 1812 e la fondazione delle prime società segrete russe. Per la precisione con cui i diversissimi piani del racconto si innestano all'interno del grande disegno monologico e filosofico dell'autore Lev Tolstoj, Guerra e pace potrebbe definirsi la più grande prova di epica moderna, e un vero e proprio «miracolo» espressivo e tecnico. Guerra e pace è considerato da molti critici un romanzo storico, in quanto offre un ampio affresco della nobiltà russa nel periodo napoleonico.

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— Ah, che il diavolo vi pigli, te e tutti quanti! – furono le ultime parole che gli giunsero.

Rostow si diresse all’alloggio di Telianin.

— Il padrone è fuori, – rispose l’attendente. – È andato allo stato maggiore. Ma che forse qualche cosa è successa? – soggiunse, notando il viso sconvolto del visitatore.

— No, niente.

— Per poco non l’avete trovato. Proprio adesso è uscito.

Lo stato maggiore si trovava a tre verste da Salzeneck. Rostow, senza tornare a casa, balzò in sella e mosse a quella volta. Nel villaggio, che lo stato maggiore occupava, sorgeva un’osteria, frequentata dagli ufficiali. Rostow vi si recò. Sull’ingresso, vide il cavallo di Telianin.

Nella seconda camera, il luogotenente se ne stava seduto davanti a un piatto di salsicce e una bottiglia di vino.

— Ah, eccovi qui anche voi, giovanotto! – disse sorridendo e alzando le ciglia.

— Sì, – rispose Rostow fra i denti, e prese posto alla tavola accanto.

C’erano anche nella camera due Tedeschi e un ufficiale russo. Tutti tacevano, non s’udiva che il rumor dei coltelli sui piatti e il masticar del luogotenente. Terminata la colazione, Telianin cavò di tasca una borsa allungata, ne fece scorrere l’anello con le piccole dita ricurve, ne prese una moneta d’oro e la gettò al tavoleggiante.

— Sbrigatevi, prego, – disse.

La moneta era nuova. Rostow si alzò e si accostò a Telianin.

— Vogliate mostrarmi cotesta borsa, – disse con voce sommessa, udibile appena.

Telianin, sempre con gli occhi vaganti e le ciglia alzate, gliela porse.

— Sì, una graziosa borsetta... Sì... sì, – disse, facendosi pallido. – Guardatela, giovanotto, guardatela pure.

Rostow la prese, la osservò, diè uno sguardo al contenuto, e poi si volse a Telianin. Il luogotenente, come al solito, guardava intorno di qua e di là, e di botto parve invaso da un accesso di buon umore.

— Quando saremo a Vienna, avrò modo di vuotarla... Qui, in questi miserabili paesucoli, non c’è come spendere un soldo... Orsù, date qua, giovanotto, vado via.

Rostow taceva.

— Sicchè, anche voi volete far colazione?... Si mangia benino qui... Via, rendetemi la borsa...

E stesa la mano, la prese, se la cacciò nella tasca dei calzoni, mentre alzava indifferente le ciglia e leggermente apriva la bocca, come per dire che quella lì era roba sua, che il mettersela in tasca era la cosa più naturale di questo mondo, e che a nessuno dovea dar conto dei fatti suoi.

— Ebbene, giovanotto? – disse poi, traendo un sospiro.

I loro occhi s’incontrarono, e parve che una scintilla ne partisse.

— Venite qua, – disse Rostow, pigliandolo pel braccio, e quasi trascinandolo verso la finestra. – Cotesti danari son di Denisow... e voi li avete presi, – gli bisbigliò all’orecchio.

— Che?... che?... Come vi permettete voi?...

Le parole tronche suonarono come un grido disperato, come una domanda di perdono. Erano nè più nè meno che una confessione. Rostow n’ebbe un senso di sollievo, e nel punto stesso fu preso da una profonda pietà per il disgraziato. Ma bisognava pur troppo compire l’opera incominciata.

— Chi sa che penserà questa gente qui, – balbettò Telianin, prendendo il berretto e avviandosi verso l’altra camera vuota. – Bisogna che vi spieghi...

— Non serve. So tutto oramai, – rispose Rostow.

— Ma io...

Pallido, smarrito, gli tremavano tutti i muscoli del viso; gli occhi erravano sempre, ma non osavano alzarsi; una specie di rantolo gli stringeva la gola.

— Conte!... ve ne scongiuro, non mi rovinate... Pigliate... Eccovi questi maledetti danari, – e li gettava sulla tavola. – Pensate che ho una madre, un povero padre vecchio...

Rostow raccolse le monete, evitando di guardare a Telianin, e fece atto di uscire, senza articolare una sillaba. Si fermò nondimeno sulla soglia e tornò sui suoi passi.

— Dio mio! – disse con le lagrime agli occhi, – come mai v’è bastato l’animo...?

— Conte, ve ne prego! – balbettò Telianin, avvicinandosi.

— Non mi toccate! – esclamò Rostow, tirandosi indietro; – e se proprio ne avete bisogno, ecco, prendete.

E gettatagli la borsa, uscì concitato dall’osteria.

V

La sera di quello stesso giorno, nell’alloggio di Denisow, si discorreva animatamente fra gli ufficiali dello squadrone.

— Ed io vi dico, Rostow, che voi dovete far le vostre scuse al colonnello, – diceva un capitano dai capelli grigi, dai baffi enormi, dalla ruvida faccia rugosa. Era Kirsten, due volte degradato per affari d’onore e due volte riuscito a riconquistar le spalline.

— Io non permetto ad alcuno di darmi una mentita! – gridò Rostow, rosso dalla collera. – Egli mi ha dato del bugiardo, ed io gli ho ricacciato in gola l’insulto. Siamo lesti. Mi metta pur di servizio tutti i giorni, mi metta magari agli arresti; ma nessuno mi indurrà a chiedergli scusa, poichè se egli, come colonnello, non intende abbassarsi a darmi soddisfazione, allora...

— Ma no, permettete, caro mio, date retta a me – lo interruppe il capitano con la sua voce di basso, tranquillamente lisciandosi i lunghi baffi. – Voi, in presenza di altri ufficiali, venite a dire al colonnello che un ufficiale ha rubato...

— Non è colpa mia se altri era presente al discorso. Può darsi che avrei fatto meglio a tacere, ma io non sono un diplomatico. Per questo son entrato negli ussari, convinto che qui non c’è bisogno di tante sottigliezze... Ed ecco che si osa dirmi sul muso che io ho mentito... Ebbene, ho il diritto, mi pare, di chieder soddisfazione.

— Tutto ciò va d’incanto, e nessuno pensa che voi siate un vigliacco; ma la questione è tutt’altra. Domandate un po’ a Denisow: dove mai s’è inteso che un alfiere mandi un cartello di sfida al colonnello?

Denisow, cupo in volto, si mordeva i baffi, e non mostrava nessunissima voglia di entrar nel discorso. Alla domanda del capitano, si limitò a scuoter la testa in segno di diniego.

— Voi, – riprese a dire il capitano, – come se nulla fosse, alla presenza di altri ufficiali, ve ne venite a sciorinare al colonnello una porcheria senza nome. Il colonnello Bogdanic ha fatto benissimo di richiamarvi all’ordine.

— Ma no, niente richiamo all’ordine... Ha detto invece che io mentivo.

— Benissimo, e voi gli avete risposto non so che scioccherie... Epperò dovete domandar scusa.

— Per nulla al mondo!

— Questa da voi non me l’aspettavo, – disse severo il capitano. – Voi non volete far le vostre scuse, e sappiate, caro mio, che siete colpevole non solo davanti a lui, ma verso tutto il reggimento, verso tutti noi. Se almeno ci aveste pensato, se vi foste consigliato... Ma no! avete spiattellato ogni cosa sulla barba di tutti. Che volete ora che faccia il colonnello? Denunciare il colpevole, e infamar così tutto il reggimento?... Così è che la pensate, eh? Ma noi no, caro voi! E Bogdanic ha fatto benissimo a smentirvi. È doloroso, lo so, ma siete voi che l’avete voluto. E adesso che si vuol metter cenere sulla brutta faccenda, voi, per una vostra bizza, non volete chieder scusa, e andate strombazzando la cosa ai quattro venti. Che vi costa, in fin dei conti, scusarvi davanti ad un vecchio onorato ufficiale? Si dica di lui quel che si vuole, ma Bogdanic è sempre la perla dei colonnelli... L’offesa vi cuoce; ma vi par nulla offendere, disonorare l’intero reggimento?... Voi, caro mio, lo capisco, siete nuovo fra noi; oggi qua, domani Dio sa dove, e non vi preme un fico secco che si dica: «nel reggimento di Paulograd ci son dei ladri!» Ma a noi ci preme, a noi! Non è così, Denisow? non è vero che ci preme?

Denisow taceva sempre, tratto tratto volgendo a Rostow i neri occhi luccicanti.

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