Lev Tolstoj - Guerra e pace. Ediz. integrale

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Guerra e pace. Ediz. integrale: краткое содержание, описание и аннотация

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Scritto tra il 1863 e il 1869 e pubblicato per la prima volta tra il 1865 e il 1869 sulla rivista Russkij Vestnik, riguarda principalmente la storia di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, tra le guerre napoleoniche, la campagna napoleonica in Russia del 1812 e la fondazione delle prime società segrete russe. Per la precisione con cui i diversissimi piani del racconto si innestano all'interno del grande disegno monologico e filosofico dell'autore Lev Tolstoj, Guerra e pace potrebbe definirsi la più grande prova di epica moderna, e un vero e proprio «miracolo» espressivo e tecnico. Guerra e pace è considerato da molti critici un romanzo storico, in quanto offre un ampio affresco della nobiltà russa nel periodo napoleonico.

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— A voi, – riprese con foga il capitano, e gli tremava la voce, – a voi sta a cuore la vostra bizza; ma a noi vecchi, cresciuti nel reggimento e che, se Dio vuole, nel reggimento morremo, a noi sta a cuore l’onore del reggimento, e Bogdanic lo sa. Oh, oh, altro se ci sta a cuore! E quel che voi fate sta male, male assai. Pigliatela come volete, ma io sono abituato a dir la verità chiara e tonda. Sta male, malissimo!

E il capitano si alzò e volse le spalle.

— Ha parlato d’oro, per tutti i diavoli! – gridò Denisow, balzando dal suo posto. – Orsù, Rostow, fa il piacere...

Rostow, a volta a volta arrossendo e facendosi pallido, guardava ora all’uno ora all’altro ufficiale.

— No, signori, no... Non pensate... Capisco benissimo... Ma voi a torto supponete... Anche a me è caro l’onore del reggimento, della bandiera... e lo proverò coi fatti... Ebbene, sì, ho torto, – e qui le lagrime gli velavano gli occhi, – ho torto marcio... Vi basta? volete altro?

— Bravo, bravo! così vi voglio! – esclamò il capitano, voltandosi e battendogli sulla spalla.

— Te lo dicevo io! – venne su Denisow. – È un cuor d’oro.

— Bravo! bravo, conte! – ripetè il capitano. – E adesso, andate, scusatevi, e non se ne parli più.

— Signori, – rispose Rostow con voce supplichevole, — tutto, tutto farò, non mi uscirà una parola di bocca... Ma quanto a scusarmi, no, non posso... Dite quel che vi pare, ma non posso! Non son mica un bambino che vada a chieder perdono!

Denisow si mise a ridere.

— Tanto peggio per voi, – disse Kirsten. – Bogdanic è uomo da legarsela al dito, e vi farà pagar cara la testardaggine.

— Ma non è testardaggine, no! Io non vi so dire quel che provo, ma è certo che non posso, non posso!

— E sia! fate come più vi talenta, – conchiuse stizzito il capitano. – E dov’è che s’è cacciato quel farabutto? – domandò poi a Denisow.

— S’è dato per ammalato.

— Infatti, dev’essere una malattia la sua, non si può spiegare altrimenti.

— Malattia o no, badi a non venirmi fra i piedi... Lo ammazzo come un cane! – gridò Denisow.

In quel punto, entrò Gercow.

— Tu? che mal vento ti mena? – si chiese da tutte le parti.

— In marcia, signori! Mack si è arreso prigioniero con tutto l’esercito.

— Eh via, fandonie!

— L’ho visto io proprio.

— Come? Hai visto Mack vivo e sano? coi piedi, con le mani, con la testa?

— In marcia! in marcia! Una bottiglia a Gercow per la notizia che ci ha portato... Ma tu come sei capitato qui?

— Comandato di nuovo a reggimento, per dato e fatto di quel diavolo di Mack. Il generale austriaco si è lamentato perchè mi era congratulato con lui del ritorno del suo Mack... E tu, Rostow, che ti succede? si direbbe che esci dal bagno...

— Eh, caro, sapessi che diavoleria da due giorni in qua!

Un aiutante entrò e confermò la prima notizia di Gercow. All’alba si partiva.

— In marcia, signori!

— Sia lodato Iddio! non si starà più con le mani in mano!

VI

Kutusow avea ripiegato su Vienna, distruggendo dietro di sè il ponte sull’Inn a Braunau e quello sul Traun a Linz. Il 23 di Ottobre l’esercito russo passò il fiume Enns. I carriaggi, le artiglierie, le colonne dei soldati traversarono di pieno giorno la città di Enns, di qua e di là dal ponte. Era una giornata tepida e piovosa di autunno. L’ampio orizzonte, che dominavasi dall’altura dove eran collocate le batterie a difesa del ponte, ora nascondevasi dietro una cortina di pioggia obliqua, ora scoprivasi di colpo, e tutti gli oggetti emergevano spiccati e scintillavano al sole. In giù, la piccola città, con le sue case biancheggianti dai tetti rossi, la cattedrale, e il ponte sui due lati del quale allungavansi le truppe in marcia. Di là da un gomito del Danubio, vari battelli, un’isola, un castello col suo parco, circondato dalle acque dell’Enns cadenti nel Danubio; e poi anche la riva sinistra del fiume rocciosa e folta di pini, sopra uno sfondo di vette verdeggianti e di gole azzurrognole di monti. Dal mezzo della pineta, cupa e fitta come una foresta vergine, spuntavano le torri d’un monastero. Più indietro, in lontananza, sull’altra sponda dell’Enns, apparivano e sparivano le pattuglie nemiche.

Fra i cannoni, sull’altura, il generale della retroguardia insieme col suo aiutante di campo osservava con un cannocchiale il terreno. Un po’ più indietro sedeva sopra un affusto Nesvizki, mandato dal generalissimo alla retroguardia. Il cosacco, che lo accompagnava, tirò fuori una fiaschetta e una canestra, ed egli imbandì agli ufficiali un grazioso spuntino di pasticcetti e di vero doppio liquore di cumino. Gli ufficiali allegramente lo circondavano, gli uni in ginocchio, gli altri seduti alla turca sull’umido prato.

— Sì, non fu mica uno sciocco quel principe austriaco, che eresse qui un castello. Un posto incantevole! Servitevi, signori, senza complimenti, – disse Nesvizki.

— Grazie, obbligatissimo, principe, – rispose uno degli ufficiali, felice di discorrere con un autorevole rappresentante dello stato maggiore. – Posto stupendo, affè mia! Che casa, che parco! abbiamo anche visto due cervi...

— Guardate, principe, – disse un altro, che avea gran voglia di addentare un terzo pasticcetto e che però facea le viste di osservare astratto il paesaggio, – guardate, i nostri soldati non han perduto il loro tempo... Laggiù, verso il villaggio, eccone tre che trascinano qualche cosa. In meno di niente, avran fatto tabula rasa...

— Sfido io! – approvò Nesvizki. – Ma sapete che?... una cosa mi fa gola... Che gusto sarebbe insinuarsi là, in quelle torri del monastero! – e gli occhi gli si faceano piccini e lucidi, mentre con la bocca sensuale sgranocchiava un pasticcino. – Che bella cosa davvero!

Gli ufficiali si misero a ridere.

— Magari, si farebbe un po’ di paura alle monacelle. Pare che siano italiane, e ce n’è delle bellocce... Parola d’onore, darei cinque anni di vita!

— Scommetto che le poverine si annoiano, – disse un altro.

L’ufficiale di stato maggiore, che stava sull’altura, indicò qualche cosa al generale, e questi volse il cannocchiale da quella parte.

— Proprio, proprio così! – brontolò irritato, togliendosi il cannocchiale dagli occhi. – Tirano di fianco sul passaggio del fiume... E che hanno i nostri che non si spicciano!

Ad occhio nudo si vedevano le batterie nemiche, dalle quali si staccò una bianca nuvoletta lattea. Subito dopo si udì uno scoppio lontano, e si notò un frettoloso movimento di uomini sul ponte.

Nesvizki si alzò e si avanzò sorridente verso il generale.

— Vuole assaggiare qualcosa vostra eccellenza? – domandò.

— Brutt’affare! – borbottò il generale, senza rispondergli. – Troppo a rilento sono andati i nostri.

— Vuole che vada, eccellenza?

— Sì, andate, andate... Dite agli ussari che passino per ultimo e facciano saltare il ponte, come già cento volte ho ordinato,... e che guardino bene agli esplodenti.

— Vado subito.

Nesvizki chiamò il cosacco, fece sparecchiare, montò a cavallo, tirando su il suo corpaccione.

— Davvero, – disse agli ufficiali che lo guardavano sorridendo, – davvero che darò una capatina nel monastero.

— A voi, capitano! – gridò il generale. – Vediamo un po’ se me li spazzate di lassù... Al diavolo la fiaccona!

— I serventi ai pezzi! – comandò il capitano, e nel punto stesso emersero gli artiglieri e corsero presso gli affusti.

— Batteria numero uno! – suonò la voce imperiosa del comando.

Un rombo si udì, e sulle teste dei nostri che marciavano nella valle, volò sibilando una granata e, senza toccar la meta, cadde assai più in qua del nemico e scoppiò, sollevando un gran nuvolo di fumo e di polvere.

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