Amo colui l'anima del quale è traboccante, così ch'egli dimentica sè stesso e tutte le cose che sono in lui: così tutte le cose cooperano alla sua distruzione.
Amo colui che è libero spirito e libero cuore: così la sua testa non è che un viscere del suo cuore, ma il cuore lo spinge alla rovina.
Amo tutti coloro che sono come gocce pesanti, cadenti una per una dalla fosca nube sospesa su gli uomini: esse annunziano che viene il fulmine, e periscono quali messaggeri.
Guardate, io sono un nunzio del fulmine e una pesante goccia della nube: ma questo fulmine si chiama superuomo ».
Quando Zarathustra ebbe pronunciate queste parole, guardò di nuovo gli uomini e tacque. «Eccoli – disse al suo cuore – essi ridono: essi non mi comprendono, io non sono bocca per queste orecchie.
Bisogna dunque prima spezzar loro le orecchie affinchè essi imparino a intender con gli occhi? Bisogna far dello strepito come cembali e predicatori della penitenza? Oppure essi non credono che a colui che balbetta?
Essi hanno qualcosa della quale vanno superbi. Come chiamano però, ciò che li fa superbi? La chiamano cultura: essa li distingue dai pastori di capre.
Perciò odono malvolentieri per loro la parola «disprezzo». Voglio dunque parlare al loro orgoglio.
Voglio dunque parlar loro di ciò che è più spregevole: cioè dell' ultimo uomo ».
E così parlò Zarathustra al popolo:
«È tempo che l'uomo fissi a sè medesimo uno scopo. È tempo che l'uomo pianti il seme della sua più alta speranza.
Il suo terreno è ancora abbastanza ricco per questo. Ma questo terreno diverrà un giorno povero e sterile e nessun altro albero potrà crescervi.
Ahimè! Viene il tempo nel quale l'uomo non getterà più al di sopra degli uomini il dardo del suo desiderio, e la corda del suo arco più non saprà vibrare!
Vi dico: bisogna ancora portare in sè un caos, per poter generare una stella danzante. Vi dico: avete ancora del caos in voi.
Ahimè! Viene il tempo in cui l'uomo non potrà più generare alcuna stella. Ahimè! giunge il tempo del più spregevole tra gli uomini che non sa più disprezzare sè stesso.
Guardate! Io vi mostro l' ultimo uomo .
«Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è nostalgia? Che cosa è astro?» – così chiede l'ultimo uomo ammiccando.
La terra sarà divenuta allora piccina e su di lei saltellerà l'ultimo uomo che impicciolisce ogni cosa.
La sua razza è indistruttibile come quella della pulce; l'ultimo uomo vive più a lungo di tutti.
«Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e ammiccano.
Essi hanno abbandonate le regioni dove duro era vivere: giacchè si ha bisogno di calore. Si ama ancora il vicino e ci si stropiccia a lui: giacchè si ha bisogno di calore.
Ammalarsi e diffidare equivale per essi a peccato: avanziamo guardinghi. Folle chi incespica ancora nei sassi o negli uomini!
Un po' di veleno di qui e di là: ciò produce sogni gradevoli. E molto veleno infine, per una gradevole morte.
Si lavora ancora poichè il lavoro è uno svago. Ma si ha cura che lo svago non ecciti troppo.
Non si diviene più poveri e ricchi: entrambe queste cose sono troppo opprimenti. Chi vuole ancora regnare? Chi ancora obbedire? Entrambe queste cose sono troppo opprimenti.
Nessun pastore e un solo gregge. Ognuno vuol la stessa cosa, ognuno è simile: chi sente altrimenti, va volentieri al manicomio.
«Una volta tutto il mondo era pazzo» dicevano i più astuti ammiccando.
Si è prudenti e si sa tutto ciò che accade: così non si hanno limiti nel deridere. Ci si bisticcia ancora, ma subito ci si riconcilia – altrimenti ci si rovina lo stomaco.
Abbiamo i nostri svaghi per il giorno e i nostri svaghi per la notte: ma pregiamo la salute.
«Noi abbiamo inventato la felicità» dicono, ammiccando gli ultimi uomini».
E qui Zarathustra terminò il primo discorso che si chiama anche «l'introduzione»: giacchè in quel punto l'interruppe il clamore e la gioia della folla. «Dacci questo ultimo uomo, o Zarathustra – essi gridavano – rendici simili a quest'ultimo uomo». E tutto il popolo giubilava e faceva schioccare la lingua. Ma Zarathustra divenne triste e disse al suo cuore:
«Essi non mi comprendono: io non sono bocca per queste orecchie.
Troppo a lungo, certo, vissi nella montagna, troppo ascoltai i ruscelli e gli alberi: ora parlo a loro come a pastori di capre.
L'anima mia è serena e luminosa quale montagna al mattino. Ma essi pensano che io sia freddo e un buffone dalle burle atroci.
Ed ecco che mi guardano e ridono: e mentre ridono essi mi odiano ancora. Vi è del ghiaccio nel loro riso».
Ma allora accadde qualcosa, che fece ammutolire ogni bocca, irrigidire ogni sguardo. Nel frattempo il saltimbanco aveva infatti cominciato il suo lavoro: era uscito da una porticina e camminava su la corda tesa fra le due torri, così che rimaneva sospeso sopra il mercato e la folla. Quando fu appunto a metà del suo cammino, la piccola porta si aperse ancora una volta, e saltò fuori un garzone screziato, somigliante a un pagliaccio, che seguì con passi rapidi il primo. «Avanti, zoppo, gridò la sua terribile voce, avanti poltrone, paltoniere, faccia smunta! Bada ch'io non ti carezzi con le mie calcagna! Che fai tu qui fra le torri? Bisognerebbe appunto chiuderti nella torre; tu sbarri la via a uno migliore di te». E ad ogni parola gli si avvicinava sempre più: ma quando egli fu soltanto a un passo da lui, allora avvenne questa cosa terribile che fece ammutolire ogni bocca ed irrigidì ogni sguardo – egli gettò un grido indemoniato e saltò oltre colui che gli impediva il cammino. Ma questi, allorchè vide vincer così il proprio rivale, perdette la testa e la fune; gettò via la pertica e più svelto di questa, come un turbine di braccia e di gambe, precipitò nell'abisso. Il mercato e il popolo somigliavano al mare quando si solleva la tempesta: tutti fuggivano l'un dall'altro e l'uno sopra l'altro, e principalmente in quel punto ove doveva precipitare il corpo.
Zarathustra però non si mosse, e proprio accanto a lui cadde il corpo straziato, sfracellato, ma non morto ancora. Dopo un poco quell'infranto rinvenne e vide Zarathustra inginocchiato presso di lui. «Che fai tu qui?, disse infine; sapevo da gran tempo che il diavolo m'avrebbe giocato di sgambetto. Ora mi trascina all'inferno: vuoi tu impedirglielo?».
«Sul mio onore, o amico, rispose Zarathustra, non esiste affatto quanto tu dici: non vi è nessun diavolo e nessun inferno. L'anima tua morirà prima ancora del tuo corpo. Non temere più nulla».
L'uomo guardò su, diffidente. «Se tu dici la verità, diss'egli poi, allora io non perdo nulla perdendo la vita. Io non sono molto più di una bestia alla quale insegnarono a ballare a furia di busse e di scarso alimento».
«Non è punto così, disse Zarathustra; tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere; in ciò nulla vi è di spregevole. Ora tu perisci pel tuo mestiere: voglio quindi seppellirti con le mie mani».
Quando Zarathustra ebbe detto questo, il moribondo non rispose più, ma scosse la mano, come se cercasse la mano di Zarathustra per ringraziarlo.
Giunse frattanto la sera ed il mercato si avvolse di tenebre: allora il popolo si disperse, poi che anche la curiosità e lo spavento si stancano. Ma Zarathustra sedette presso il morto, sulla terra, e s'immerse nei pensieri: così dimenticava il tempo. E giunse alla fine la notte, e soffiò un vento freddo sul solitario. Allora Zarathustra si alzò e disse al suo cuore:
«Davvero una bella pesca ha fatto oggi Zarathustra! Non trovo alcun uomo, bensì un cadavere.
Inquietante è l'esistenza umana e, di più, sempre priva di senso: un buffone può divenirle fatale.
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