«D’accordo. Esme è da Charlie?».
«Sì. La femmina è tornata in città. È passata da casa tua, ma Charlie era al lavoro. Non gli si è avvicinata, perciò non preoccuparti. È al sicuro, guardato a vista da Esme e Rosalie».
«E lei cosa fa?».
«Probabilmente sta cercando la scia giusta. Stanotte ha battuto la città intera. Rosalie l’ha seguita in aeroporto, lungo le strade della periferia, a scuola... Sta scavando, Bella, ma non troverà niente».
«E tu sei certo che Charlie sia al sicuro?».
«Sì, Esme non lo perde di vista. E presto la raggiungeremo anche noi. Se il segugio si avvicina a Forks, lo prenderemo».
«Mi manchi», sussurrai.
«Lo so, Bella. Credimi, lo so. È come se ti fossi portata via metà di me stesso».
«E allora vieni a riprendertela».
«Presto, il più presto possibile. Prima ti salverò».
«Ti amo».
«Ci credi se ti dico che, malgrado tutto quello che ti sto facendo subire, ti amo anch’io?».
«Sì, certo che sì».
«Verrò a prenderti presto».
«Ti aspetto».
Non appena riattaccò, la nuvola di depressione tornò a riaddensarsi sulla mia testa.
Mi voltai per restituire il telefono ad Alice e la trovai seduta al tavolo, intenta a disegnare su un foglio di carta intestata dell’albergo. Sbirciai da dietro le sue spalle.
Stava disegnando una stanza: lunga, rettangolare, con una sezione quadrata più stretta in fondo. Le assi del parquet correvano parallele al lato più lungo. Sulle pareti, una serie di linee dritte marcava i contorni degli specchi. E poi, a un’altezza che poteva arrivare ai fianchi di una persona, la linea. La linea che secondo Alice era dorata.
«È una scuola di danza», dissi, riconoscendo all’istante le forme familiari.
Mi guardarono, sorpresi.
«Hai già visto questa stanza?». Jasper sembrava calmo, ma nella sua voce vibrò una nota che non riuscii a identificare. Alice stava a capo chino sulla sua opera, e la mano volava sul foglio a tratteggiare i contorni di un’uscita di sicurezza in fondo alla sala, poi lo stereo e il televisore sopra il tavolino, nell’angolo a destra dell’entrata.
«Sembra il posto in cui andavo a prendere lezioni di danza a otto o nove anni. Aveva la stessa forma». Sfiorai la pagina all’altezza della sezione quadrata e più stretta, in fondo alla stanza. «Qui c’era il bagno... per entrare si passava dall’altra sala. Ma lo stereo era qui», indicai l’angolo sinistro, «era più vecchio, e non c’era il televisore. In sala d’attesa c’era una finestra: da lì si poteva vedere la stanza, dalla stessa prospettiva che hai disegnato tu».
Alice e Jasper mi fissavano, increduli.
«Sei sicura che sia la stessa stanza?», chiese Jasper, senza perdere la calma.
«No, niente affatto: immagino che la maggior parte delle scuole di danza siano così, con gli specchi e la sbarra». Seguii con il dito la linea che incrociava gli specchi. «È soltanto la forma a sembrarmi familiare». Indicai la porta, che si trovava esattamente dove ricordavo.
«Avresti qualche motivo per andarci adesso?», chiese Alice, interrompendomi mentre fantasticavo sui miei ricordi.
«No, non ci entro da quasi dieci anni. Ero una ballerina tremenda... nei saggi di fine anno mi mettevano sempre in ultima fila».
«Perciò è impossibile che questa stanza possa portare a te?», chiese Alice, assorta.
«Probabilmente ha anche cambiato proprietario. Di sicuro è un’altra stanza, altrove».
«E la scuola di ballo che frequentavi tu, dov’è?», chiese Jasper, senza tradire troppa curiosità.
«Era a due passi da casa di mia madre. Ci andavo a piedi, dopo la scuola...», dissi, senza terminare la frase. Lo sguardo che i due si scambiarono non mi sfuggì.
«Qui a Phoenix?», chiese Jasper, il tono ancora calmo.
«Sì», dissi in un sussurro, «tra la Cactus e la Cinquantottesima».
Restammo in silenzio, con gli occhi fissi sul disegno.
«Alice, quel telefono è sicuro?».
«Sì. È un numero del distretto di Washington».
«Allora posso usarlo per telefonare a mamma».
«Pensavo fosse in Florida».
«Sì, però tornerà presto, e non posso permettere che entri in casa e...». Mi tremava la voce. Stavo pensando a ciò che aveva detto Edward della femmina dai capelli rossi: che era stata a casa di Charlie e a scuola, dove erano custoditi i miei dati.
«Come farai a raggiungerla?».
«Non hanno un numero fisso, a parte quello di casa: lei controlla la segreteria regolarmente».
«Jasper?», chiese Alice.
Lui ci pensò sopra. «Non credo che corriamo rischi. Ovviamente, bada a non dire dove ti trovi».
Afferrai il telefono con impazienza e composi il numero che conoscevo così bene. Al quarto squillo, la voce di mia madre chiedeva di lasciare un messaggio.
«Mamma, sono io. Ascolta. Ho bisogno di un grosso favore. Appena senti il messaggio, chiamami a questo numero». Alice scattò al mio fianco e scrisse il numero in fondo al disegno. Lo lessi a voce alta con cura, due volte. «Ti prego, non andare da nessuna parte finché non mi avrai richiamato. Non preoccuparti, sto bene, ma devo parlare con te quanto prima, a qualsiasi ora ascolti la registrazione, d’accordo? Ti voglio bene, mamma. Ciao». Chiusi gli occhi e pregai con tutte le mie forze che nessun imprevisto la costringesse a tornare a casa prima di ascoltare la segreteria.
Mi lasciai cadere sul divano e presi a mangiucchiare quel che era rimasto di un vassoio di frutta, pronta ad affrontare una lunga serata. Pensai anche di chiamare Charlie, ma non ero sicura che fosse già a casa. Mi concentrai sui telegiornali, in cerca di servizi sulla Florida, sugli allenamenti precampionato, ma anche su scioperi, uragani o attacchi terroristici, su qualsiasi cosa che avrebbe potuto costringerli a tornare in anticipo.
Evidentemente, chi è immortale impara a essere paziente. Né Jasper né Alice sentivano il bisogno di fare alcunché. Per un po’, Alice tratteggiò la stanza buia come l’aveva vista, per quel che le permetteva la luce fioca del televisore. Quando finì, si sedette a osservare il muro spoglio, con i suoi occhi senza tempo. Neanche Jasper sembrava avere necessità di mettersi a passeggiare avanti e indietro, o di sbirciare dalla finestra, o di correre urlando fuori dalla porta, come avrei desiderato fare io.
Probabilmente mi addormentai sul divano, in attesa di uno squillo del telefono. Mi svegliai per qualche istante al tocco leggero delle mani gelate di Alice che mi rimetteva a letto, ma risprofondai nel sonno ancora prima di posare la testa sul cuscino.
Stavo lentamente iniziando a confondere il giorno con la notte, perché, ancora una volta, quando riaprii gli occhi era troppo presto. Sotto le coperte, ascoltavo le voci basse di Alice e Jasper nell’altra stanza. Era strano che riuscissi a sentirle. Rotolai fino a posare i piedi a terra e mi trascinai nel salotto.
L’orologio sul televisore diceva che erano passate da poco le due del mattino. Alice e Jasper stavano seduti sul divano, lei disegnava, lui osservava i suoi schizzi. Quando entrai non si accorsero di me, erano troppo concentrati.
Sgattaiolai a fianco di Jasper per sbirciare.
«Ha visto altro?», chiesi, a bassa voce.
«Sì. Qualcosa l’ha fatto tornare nella stanza del videoregistratore, che adesso è illuminata».
Alice disegnava una stanza quadrata, con travi scure sul soffitto. Le pareti erano rivestite di pannelli di legno scuro, fuori moda. Sul pavimento, un tappeto scuro con decorazioni geometriche. Verso sud si apriva un’ampia finestra e a ovest si vedeva l’accesso a un salotto. Un lato dell’accesso era fatto di pietra: era un camino di pietra marrone che dava su entrambe le stanze. Il punto di fuga della prospettiva, il televisore e il videoregistratore, ammassati su un tavolo di legno troppo piccolo, erano nell’angolo più lontano della stanza. Un vecchio divano ad angolo stava di fronte al televisore e in mezzo si trovava un tavolino basso.
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