«Vai in pace», fu la risposta formale di Carlisle.
Laurent si guardò un’ultima volta attorno e raggiunse svelto la porta.
Il silenzio durò meno di un secondo.
«Quanto è vicino?». Carlisle guardava Edward.
Esme era già all’opera: con la mano sfiorò i tasti di un pannello segreto sul muro, e con uno stridio un’enorme paratia d’acciaio iniziò a sigillare la vetrata sul retro della casa. Restai a bocca aperta.
«Circa cinque chilometri al di là del fiume. Ci sta girando attorno per incontrare la femmina».
«Qual è il piano?».
«Noi lo porteremo fuori strada, Jasper e Alice accompagneranno Bella a sud».
«E poi?».
La voce di Edward era quella di un assassino: «Non appena Bella sarà al sicuro, gli daremo la caccia».
«Immagino che non ci sia altra scelta», rispose Carlisle, cupo.
Edward si rivolse a Rosalie.
«Portala di sopra e scambiatevi i vestiti», le disse in tono perentorio. Lei lo fissò irritata e incredula.
«Perché dovrei?», sibilò. «Cos’è lei per me? Nient’altro che una minaccia... un pericolo a cui tu hai deciso di esporre tutti noi».
Il suo tono avvelenato mi fece trasalire.
«Rose...», mormorò Emmett, posandole la mano su una spalla. Lei se la scrollò via.
Io non staccavo gli occhi da Edward, conoscevo il suo temperamento ed ero preoccupata di come avrebbe reagito.
Mi sorprese. Distolse lo sguardo come se Rosalie non avesse nemmeno aperto bocca, come se non esistesse.
«Esme?», chiese senza scomporsi.
«Certo», rispose lei in un sussurro.
In un batter d’occhio Esme fu al mio fianco, mi prese con facilità tra le braccia e mi portò su per le scale prima ancora che potessi sorprendermi.
«Cosa facciamo?», chiesi, senza fiato, appena mi ebbe deposta davanti a una stanza buia che dava sul corridoio del secondo piano.
«Cerchiamo di confondere l’odore. Non durerà tanto, ma potrebbe esserci d’aiuto per farti scappare». Sentivo i suoi vestiti cadere a terra.
«Non credo che mi andranno bene...», esitai, ma all’istante le sue mani mi sfilarono la camicia. Mi liberai da sola, in fretta, dei jeans. Mi diede qualcosa che somigliava a una camicetta. Con qualche difficoltà, riuscii a infilare le braccia nei buchi giusti. Poi mi passò un paio di pantaloni sportivi. Li indossai, ma erano troppo lunghi, i piedi non uscivano. Riuscii a mantenere l’equilibrio solo dopo avere arrotolato più volte gli orli. Lei, nel frattempo, era già dentro i miei abiti. Mi riportò alle scale, dove ci aspettava Alice che stringeva una borsa di pelle. Le due donne mi presero per i gomiti e mi trascinarono di corsa giù per la scalinata.
Al piano di sotto i preparativi erano a buon punto. Edward ed Emmett erano pronti a partire. Emmett portava in spalla uno zaino dall’aria pesante. Carlisle stava porgendo un piccolo oggetto a Esme. Si voltò e ne passò uno identico ad Alice: era un microscopico telefono cellulare argentato.
«Esme e Rosalie prenderanno il tuo pick-up, Bella», disse rivolto a me. Annuii, scrutando Rosalie con la coda dell’occhio. Fissava Carlisle, risentita.
«Alice, Jasper: prendete la Mercedes. A sud i finestrini scuri vi saranno necessari».
Anche loro annuirono.
«Noi prendiamo la jeep».
Fu una sorpresa scoprire che Carlisle avrebbe seguito Edward. Mi accorsi all’istante, con un brivido di paura, che la loro era la squadra dei cacciatori.
«Alice», domandò Carlisle, «abboccheranno?».
Tutti si voltarono verso la ragazza, che chiuse gli occhi e restò immobile, pietrificata.
Infine li riaprì. «Il segugio pedinerà voi tre. La donna seguirà il pick-up. A quel punto noi dovremmo avere via libera». Sembrava convinta.
«Andiamo». Carlisle si diresse verso la cucina.
Ma al mio fianco si materializzò Edward. Mi strinse nella sua presa d’acciaio, fino quasi a soffocarmi. Incurante della presenza dei suoi familiari, mi alzò da terra e avvicinò le labbra alle mie. Le sentii, fredde e dure, per il più breve degli istanti. Poi mi posò a terra accarezzandomi il viso, gli occhi ardenti fissi nei miei.
Quando si voltò, aveva il vuoto, la morte, nello sguardo.
E se ne andarono.
Gli altri furono tanto rispettosi da distogliere gli occhi da me, mentre il mio volto si rigava di lacrime mute.
Il silenzio si trascinò fino a quando il telefono vibrò nella mano di Esme. In un lampo lo portò all’orecchio.
«Ora», disse. Rosalie si affrettò verso l’uscita senza degnarmi di uno sguardo; Esme, invece, mi sfiorò una guancia.
«Stai attenta». Sentii il suo sussurro dietro di me, mentre le due donne già si dileguavano fuori di casa. Udii il motore del pick-up rombare e poi allontanarsi.
Jasper e Alice attendevano. Alice aveva già portato il telefono all’orecchio prima ancora che iniziasse a vibrare.
«Edward dice che la femmina è sulle tracce di Esme. Vado a prendere la macchina», riferì, e sparì nell’ombra, come Edward poco prima.
Io e Jasper ci guardammo. Restava dall’altra parte del corridoio, a distanza... e attento.
«Lo sai che ti sbagli, vero?», disse piano.
«Cosa?», chiesi senza fiato.
«Sento ciò che stai provando adesso, e ti dico che sono sicuro che ne vali la pena».
«No», bofonchiai. «Stanno rischiando per niente».
«Ti sbagli», ribadì, sorridendomi gentile.
In silenzio, Alice entrò e mi si avvicinò, con le braccia tese.
«Posso?».
«Sei la prima che chiede il permesso», accennai ironicamente, con un mezzo sorriso.
Mi prese tra le braccia snelle con la stessa facilità di Emmett, facendomi da scudo, e schizzammo fuori dalla porta lasciandoci alle spalle le luci di casa.
Mi risvegliai confusa. Avevo la testa annebbiata, affollata di sogni e incubi. Impiegai più del dovuto per rendermi conto di dove fossi.
Una stanza così anonima poteva trovarsi soltanto in un albergo. Le abatjour fissate ai comodini erano un indizio inconfutabile, e così le tende dello stesso tessuto del copriletto e le stampe appese alle pareti.
Mi sforzai di ricordare come ci fossi arrivata, ma non mi veniva in mente nulla.
Poi ricordai l’auto nera, elegante, con i finestrini più scuri di quelli di una limousine. Il motore quasi non si sentiva, benché sfrecciassimo sulle autostrade buie a più del doppio del limite di velocità.
E ricordavo che Alice era seduta al mio fianco sul sedile posteriore. Chissà come, durante la lunga notte, avevo posato la testa contro il suo collo granitico. Non si era mostrata affatto stupita di quella vicinanza, e la sua pelle dura e fresca mi metteva stranamente a mio agio. Il colletto della sua camicia di cotone si era fatto umido e freddo, inzuppato dal fiume di lacrime che mi sgorgò dagli occhi finché non si furono prosciugati, restando rossi e pesti.
Ero rimasta a lungo insonne; le mie palpebre esauste rifiutavano di chiudersi, benché la notte fosse finita e dietro la cima di una montagna bassa, da qualche parte in California, si intravedesse l’alba. La luce grigia che colorava il cielo terso mi accecava. Ma i miei occhi non cedevano: se solo li chiudevo, riaffioravano immagini troppo vivide, intollerabili, come diapositive nascoste sotto le palpebre. L’espressione affranta di Charlie... il ringhio brutale di Edward a denti scoperti... lo sguardo sprezzante di Rosalie. E poi il modo in cui il segugio ci scrutava, acuto e all’erta, e la morte negli occhi di Edward dopo quell’ultimo bacio... Non riuscivo a sopportare di rivedere tutto questo. Perciò mi sforzai di combattere contro la stanchezza, e il sole si alzò.
Quando attraversammo uno stretto valico di montagna, e il nuovo giorno illuminò i tetti di mattoni della “valle del sole”, ero ancora sveglia. Se mi fosse rimasta qualche emozione, mi sarei sorpresa a scoprire che eravamo giunti in Arizona in un giorno solo, anziché in tre. Osservavo l’ampia distesa pianeggiante vuota di fronte a me. Phoenix: le palme, gli arbusti bassi e i cespugli odorosi di creosoto, le linee tracciate a caso dall’intersezione delle autostrade, le macchie verdi dei campi da golf appena rasati, le pozzanghere turchesi delle piscine; il tutto sommerso da uno smog sottile e abbracciato dalla breve catena di creste rocciose, troppo basse per poterle chiamare montagne.
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