A mio marito Pancho,
per la pazienza, l’amore, l’amicizia, il buonumoree la disponibilità a cenare fuori.
E ai miei figli Gabe, Seth ed Eli,
che mi concedono di provare quell’amore speciale per cui si è disposti anche a morire.
Dicono alcuni che finirà nel fuoco
il mondo, altri nel ghiaccio.
Del desiderio ho gustato quel poco
che mi fa scegliere il fuoco.
Ma se dovesse due volte finire,
so pure che cosa è odiare,
e per la distruzione posso dire
che anche il ghiaccio è terribile
e può bastare.
Robert Frost,
Fuoco e ghiaccio
Ogni nostro sforzo di ingannarli si era dimostrato inutile. Con il cuore ghiacciato, lo guardai mentre si preparava a difendermi. La sua concentrazione intensa non tradiva ombre di incertezza, malgrado fosse in svantaggio numerico. Sapevo che nessun altro poteva aiutarci: in quel momento la sua famiglia stava combattendo per la propria vita, come lui per le nostre.
Sarei mai riuscita a conoscere l’esito dell’altro combattimento? Scoprire chi aveva vinto e chi perso? Sarei sopravvissuta abbastanza a lungo?
Le probabilità non erano così alte.
Due occhi neri, imbestialiti dal desiderio implacabile della mia morte, aspettavano di cogliere in fallo il mio protettore. Aspettavano il momento giusto per uccidermi.
Da qualche parte, lontano, nel cuore della foresta fredda, un lupo ululò.
Bella, non capisco perché tu costringa Charlie a passare bigliettini a Billy come fossimo alle elementari, se volessi parlarti mibasterebbe rispondere al
È una scelta tua, no? Non puoi tenere il piede in
Cos’è—che ti sfugge del concetto "nemici mortali", e che
Senti, so che è una reazione idiota, ma davvero non si può
Non possiamo essere amici se tu passi il tuo tempo con un brancodi
Se ti penso troppo è ancora peggio, perciò ti prego di non scrivermi più
Sì, anche tu mi manchi. Un sacco. Ma tanto non serve a niente. Scusa.
Jacob.
Sfioravo il foglio con le dita e sentivo i solchi nei punti in cui aveva premuto la penna così forte sulla carta da rischiare di bucarla. Me lo immaginavo scarabocchiare furioso con la sua grafia disordinata, barrare righe su righe quando non trovava le parole giuste, o addirittura spezzare la penna in due nella mano troppo grossa, cosa che spiegava le macchie d’inchiostro di cui era cosparsa la pagina. Immaginavo le sue sopracciglia aggrottate per la frustrazione, la fronte corrugata. Se gli fossi stata accanto, forse mi sarei messa a ridere. Non farti scoppiare la testa, Jacob , gli avrei detto. Di’ le cose come stanno.
Anche in quel momento avevo voglia di ridere, rileggendo le parole che già sapevo a memoria. La sua risposta al mio biglietto implorante — consegnato grazie a Charlie e poi a Billy, proprio come alle elementari — non mi sorprendeva. Ne avevo intuito il senso ancora prima di aprire la busta. A sorprendermi era il dolore che mi provocava ogni riga cancellata, come se le lettere avessero il profilo di lame affilate. E ancora, dietro ogni incipit furioso incombeva un abisso di sofferenza: sentivo le ferite di Jacob bruciare più delle mie.
Mentre meditavo, dalla cucina giunse l’odore inconfondibile di qualcosa che cuoceva. In un’altra casa, il fatto che qualcuno stesse cucinando al mio posto non sarebbe stato fonte di panico.
Infilai il foglio stropicciato nella tasca posteriore e scesi le scale con un balzo.
Aprii lo sportello del microonde mentre il vasetto di sugo che Charlie vi aveva infilato terminava il suo primo giro.
«Dove ho sbagliato?», chiese Charlie.
«Prima devi togliere il coperchio. Il metallo non va nel microonde». Mentre parlavo aprii il vasetto, versai metà del suo contenuto in una ciotola che infilai nel microonde e riposi il vasetto nel frigo; regolai il timer e lo feci partire.
Mentre mi davo da fare, Charlie assisteva dubbioso. «Almeno gli spaghetti vanno bene?». Osservai la pentola sul fornello, la fonte dell’odore che mi aveva messa in guardia. «Ogni tanto va mescolata», dissi a mezza voce. Trovai un cucchiaio e cercai di scomporre la poltiglia compatta che ribolliva sul fondo. Charlie sospirò.
«Cosa stavi combinando?», chiesi.
Incrociò le braccia e restò a fissare la pioggia che scrosciava fuori dalla finestra. «Non so di cosa tu stia parlando», mugugnò. Non riuscivo a capire. Charlie cucinava? E perché quell’aria arcigna?
Edward non era ancora arrivato; di solito mio padre riservava quel genere di umore al mio ragazzo e si impegnava a definire il concetto di "indesiderato" con ogni parola e azione. Gli sforzi di Charlie, oltretutto, erano superflui: Edward sapeva esattamente cosa pensava mio padre, senza bisogno di gesti teatrali. La parola "ragazzo" mi faceva mordicchiare le guance con una tensione innaturale, mentre mescolavo la pasta. Non era la definizione giusta, niente affatto. Avevo bisogno di qualcosa che esprimesse meglio la dedizione eterna... ma termini come "destino" e "fato" aggiungevano un che di posticcio se usati in una normale conversazione. Nella mente di Edward c’era un’altra parola, la vera fonte della tensione che avvertivo. Solo a pensarci mi venivano i brividi. Fidanzato. Oddio. Cercai di scrollarmi il pensiero di dosso. «Mi sono persa qualcosa? Da quando spetta a te preparare la cena?», chiesi a Charlie. Punzecchiavo il grumo di pasta che ballonzolava nell’acqua bollente.
«O meglio, cercare di prepararla».
Charlie scrollò le spalle. «Non mi pare che la legge mi vieti di cucinare in casa mia».
«Se non lo sai tu...», risposi sorridendo e lanciando un’occhiata al suo distintivo appuntato sul giubbotto di pelle. «Ah ah. Buona questa». Si levò il giubbotto, come se fosse stato il mio sguardo a ricordargli che ancora lo indossava, e lo ripose sull’appendiabiti riservato al suo equipaggiamento. Il cinturone con la pistola era già a posto: da settimane non sentiva il bisogno di indossarlo, nemmeno in servizio. Nessuna sparizione inquietante aveva più turbato la vita della cittadina di Forks, nello Stato di Washington, né c’erano più stati avvistamenti di lupi giganteschi e misteriosi sotto la pioggia incessante che avvolgeva i boschi... Scolai gli spaghetti in silenzio, sicura che Charlie avrebbe scelto da solo il momento per espormi le sue preoccupazioni. Mio padre era un uomo di poche parole e il fatto che si fosse sforzato di organizzare una cena con tutti i crismi stava a dimostrare che le parole che aveva nella testa in quel momento erano molte, molte più del solito.
Diedi la solita occhiata all’orologio, un gesto che ormai compivo meccanicamente ogni manciata di minuti. Mancava soltanto mezz’ora. Il pomeriggio era sempre la parte più difficile della giornata. Da quando il mio ex migliore amico (e licantropo) Jacob Black aveva fatto la spia riguardo alla motocicletta che avevo guidato di nascosto — tradimento architettato in modo da farmi mettere in castigo e impedirmi di frequentare il mio ragazzo (e vampiro) Edward Cullen — a Edward era permesso di venirmi a trovare soltanto dalle sette alle nove e mezza di sera, sempre all’interno dei miei confini domestici e sotto la supervisione dell’immancabile sguardo acido di mio padre.
Un vero giro di vite, rispetto al castigo precedente, meno rigoroso, a cui ero stata costretta dopo tre giorni di lontananza immotivata da casa e un tuffo dalla scogliera.
Ovviamente vedevo Edward a scuola, e in questo Charlie non poteva mettere il becco. Inoltre, Edward passava quasi tutte le notti nella mia stanza, ma Charlie non ne era esattamente al corrente. L’abilità di Edward nell’arrampicarsi in silenzio fino alla mia finestra, al primo piano, era utile quasi quanto la sua capacità di leggere nei pensieri di mio padre. Benché il pomeriggio fosse l’unico momento della giornata che passavo lontana da Edward, era sufficiente a rendermi irrequieta, e le ore non passavano mai. Eppure sopportavo la punizione senza lamentarmi, prima di tutto perché sapevo di averla meritata, e poi perché non sopportavo l’idea di ferire mio padre andandomene di casa proprio in quel momento, quando al mio orizzonte incombeva una separazione permanente, ancora invisibile a Charlie.
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