Giungemmo all’aeroporto. La fortuna era con me, o forse mi voleva dare solo un piccolo aiuto. L’aereo di Edward era atteso al terminal 4, il più grande. Vi atterrava la maggior parte dei voli, perciò non c’era di che stupirsi. Ma era esattamente quello di cui avevo bisogno: la zona più caotica e affollata dell’aeroporto. E c’era una porta, al terzo piano, che poteva essere la mia unica via di scampo.
Parcheggiammo al quarto piano dell’enorme garage. Feci strada: per una volta ero io quella che si orientava meglio. Scendemmo con l’ascensore al terzo piano, quello dei passeggeri in arrivo. Alice e Jasper persero un sacco di tempo a osservare il tabellone delle partenze. Li sentivo discutere i pro e i contro di New York, Atlanta, Chicago. Città che non avevo mai visto. Che non avrei visto mai.
Aspettavo l’occasione giusta con impazienza, incapace di fermare i piedi irrequieti. Restammo seduti sulla lunga fila di sedie accanto ai metal detector. Jasper e Alice mi controllavano fingendo di guardare la gente che passava. Mi bastava muovermi di un centimetro perché mi guardassero con la coda dell’occhio. Non avevo speranza. Dovevo mettermi a correre?
Avrebbero osato costringermi a fermarmi con la forza, in un luogo pubblico? O si sarebbero limitati a seguirmi?
Presi la busta da lettere dalla tasca e la posai sopra la borsetta di pelle nera di Alice. Lei mi guardò.
«La lettera», dissi. Annuì e la infilò in una tasca esterna. Edward l’avrebbe trovata subito.
I minuti passavano, l’aereo stava per atterrare. Era incredibile come ogni singola cellula del mio corpo sentisse la vicinanza di Edward e desiderasse vederlo. Ciò rendeva tutto molto difficile. Mi ritrovai a pensare a una scusa per rimandare, anche di poco, la fuga. A un modo per vederlo, prima. Ma sapevo che dopo l’arrivo di Edward non avrei avuto più alcuna possibilità di fuggir via.
Più di una volta Alice si offrì di accompagnarmi a fare colazione. Ancora no. Prendevo tempo.
Tenevo gli occhi fissi sul tabellone degli arrivi, osservando la successione puntuale dei voli. L’aereo da Seattle si avvicinava sempre di più alla cima dell’elenco.
Poi, quando mi restava soltanto mezz’ora per scappare, i numeri cambiarono. Il volo di Edward era in anticipo di dieci minuti. Non avevo più tempo.
«Penso che mangerò qualcosa», dissi svelta.
Alice si alzò. «Vengo con te».
«È un problema se mi faccio accompagnare da Jasper? Mi sento un po’...». Non terminai la frase. Il mio sguardo era abbastanza terrorizzato da suggerire il resto.
Jasper si avvicinò. Alice sembrava confusa, ma per fortuna non sospettava nulla. Evidentemente attribuiva il cambiamento nelle sue visioni a una manovra del segugio anziché a un mio tradimento.
Jasper camminava in silenzio al mio fianco, tenendomi una mano sulla spalla, come se mi stesse guidando. Finsi di essere poco interessata ai primi bar dell’aeroporto, in cerca del mio vero obiettivo. Ed eccolo, finalmente, dietro l’angolo, lontano dalla vista acuta di Alice: il bagno del terzo piano.
«Ti dispiace?», chiesi a Jasper quando ci passammo davanti. «Ci metto un secondo».
«Ti aspetto qui».
Non appena la porta si chiuse alle mie spalle, iniziai a correre. Ricordavo che una volta mi ero persa in quel bagno, perché aveva due uscite.
L’altra porta era poco distante dagli ascensori, e se Jasper era rimasto dove l’avevo lasciato non poteva scorgermi. Corsi senza guardarmi alle spalle. Era la mia unica possibilità e dovevo andare avanti che mi vedesse o no. La gente mi guardava, ma la ignorai. Dietro l’angolo ecco gli ascensori, verso cui mi buttai infilandomi all’ultimo momento tra le porte di una cabina piena, diretta al piano terra. M’insinuai fra i passeggeri irritati e controllai che qualcuno avesse premuto il pulsante del primo piano. Era acceso, le porte si chiusero.
Quando si riaprirono, mi feci largo e schizzai fuori in un lampo, lasciandomi alle spalle le voci infastidite degli altri occupanti. Rallentai soltanto di fronte agli agenti di guardia nella zona di raccolta bagagli e tornai a correre a precipizio quando vidi l’uscita. Chissà dov’era Jasper. Se aveva seguito la mia scia, mi restavano pochi secondi. Saltai fuori dalle porte a vetri automatiche, rischiando di mandarle in frantumi quando mi accorsi che si aprivano troppo piano.
Lungo il marciapiede affollato non c’era l’ombra di un taxi.
Non avevo tempo. Nel giro di un minuto Alice e Jasper avrebbero capito che ero scappata, o forse lo sapevano già. Mi avrebbero trovata in un baleno.
A pochi metri di distanza da me, la navetta per lo Hyatt stava chiudendo lo sportello.
«Aspettate!», urlai, sbracciandomi.
«Questa è la navetta per l’Hotel Hyatt», disse l’autista, confuso, mentre riapriva le porte.
«Sì», sbuffai ansimando, «devo andare proprio là». Salii gli scalini di corsa.
Era perplesso per il fatto che non avessi nessun bagaglio, ma fece spallucce e non chiese altro.
I posti erano quasi tutti liberi. Mi sedetti il più lontana possibile dagli altri passeggeri, e vidi allontanarsi prima il marciapiede, poi l’intero aeroporto. Non potevo fare a meno di immaginare Edward, sul ciglio della strada, nel punto in cui terminava la mia scia. Non potevo permettermi di piangere. La strada era ancora lunga.
La mia fortuna proseguì. Di fronte allo Hyatt, una coppia dall’aria esausta stava estraendo l’ultima valigia dal bagagliaio di un taxi. Balzai giù dall’autobus e corsi verso l’auto, sgattaiolando sul sedile posteriore alle spalle del tassista. La coppia stanca e l’autista della navetta mi guardavano sbalorditi.
Diedi al tassista l’indirizzo di mia madre. «Devo arrivarci il più presto possibile».
«Ma è a Scottsdale», replicò lui.
Lanciai quattro pezzi da venti sul sedile.
«Sono abbastanza?».
«Certo che sì, ragazzina, nessun problema».
Mi abbandonai sullo schienale, incrociando le braccia. Le vie familiari della città iniziarono a sfrecciarmi attorno, ma non guardavo fuori dai finestrini. Cercavo di mantenere il controllo dei miei nervi. Ora che il mio piano aveva funzionato, ero decisa a non lasciarmi andare. Non aveva senso abbandonarmi di nuovo all’ansia, indugiare ancora nel terrore. La strada era segnata. Dovevo soltanto seguirla.
Perciò, anziché andare in panico, chiusi gli occhi e passai i venti minuti del viaggio in compagnia di Edward.
Immaginai di essere rimasta all’aeroporto. Vidi me stessa in punta di piedi, impaziente di vederlo nella ressa dei passeggeri. E lui che, veloce e aggraziato, si muoveva tra la folla che ci separava. Infine, mi sarei lanciata di corsa in quegli ultimi metri - temeraria come al solito - per sentirmi al sicuro nel suo abbraccio saldo come il marmo.
Chissà dove mi avrebbe portata. Forse al Nord, per poter uscire alla luce del giorno. O forse in un posto remoto, isolato, dove avremmo potuto restare entrambi al sole. Lo immaginavo su una spiaggia, con la pelle luccicante come il mare. Non m’importava quanto a lungo ci sarebbe toccato nasconderci. Restare intrappolata con lui in una stanza d’albergo sarebbe stato un paradiso. Avevo ancora così tante domande. Avrei parlato con lui senza sosta, senza mai dormire, senza mai allontanarmi dal suo fianco.
Ne vedevo i contorni del viso così nitidi... quasi sentivo la sua voce. E malgrado l’orrore e la disperazione, mi sentii leggera e felice. Ero talmente coinvolta nel mio sogno a occhi aperti da aver perso il senso del tempo.
«Ehi, a che numero hai detto?».
La domanda del tassista sgonfiò le mie fantasie come fossero un palloncino, spegnendo ogni colore di quelle dolci illusioni. La paura, dura e vuota, stava per riempire lo spazio che queste avevano occupato fino a un attimo prima.
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