Stephenie Meyer - Twilight

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Twilight: краткое содержание, описание и аннотация

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Bella si è appena trasferita a Forks, la città più piovosa d’America. È il primo giorno nella nuova scuola e, quando incontra Edward Cullen, la sua vita prende una piega inaspettata e pericolosa. Con la pelle diafana, i capelli di bronzo, i denti luccicanti, gli occhi color oro, Edward è algido e impenetrabile, talmente bello da sembrare irreale. Tra i due nasce un’amicizia dapprima sospettosa, poi più intima, che presto si trasforma in un’attrazione travolgente. Finora Edward è riuscito a tener nascosto il suo segreto, ma Bella è intenzionata a svelarlo. Quello che ancora non sa è che più gli si avvicina e maggiori sono i rischi per lei e per chi le sta accanto... Mentre nella vicina riserva indiana riprendono a circolare inquietanti leggende, un dubbio si fa strada nella mente di Bella. Il sogno romantico che sta vivendo potrebbe essere in realtà l’incubo che popola le sue notti.

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«Cinquantotto ventuno», dissi, con voce strozzata. Il tassista mi sbirciò, temendo che stessi per avere una crisi o qualcosa del genere.

«Eccoci». Non vedeva l’ora che scendessi, e probabilmente sperava anche che non gli chiedessi il resto.

«Grazie», sussurrai. Ricordai che non c’era bisogno di avere paura. La casa era vuota. Dovevo sbrigarmi: mamma mi aspettava, impaurita, e la sua vita dipendeva da me.

Corsi verso la porta e con un movimento automatico cercai subito la chiave sotto la grondaia. Feci scattare la serratura e aprii. L’interno della casa era buio, vuoto, normale. Mi precipitai al telefono e accesi la luce in cucina. Lì, sulla lavagnetta, c’era un numero di dieci cifre scritto con una grafia minuta e precisa. Mi tremava la mano, non riuscivo a digitare le cifre giuste. Fui costretta a riattaccare e a ricominciare. Mi concentrai sui tasti, uno alla volta. Ci riuscii. Faticavo a tenere la cornetta salda vicino all’orecchio. Squillò una volta sola.

«Ciao, Bella», rispose la voce, affabile. «Che velocità. Complimenti».

«Mia madre sta bene?».

«Benissimo. Non preoccuparti, Bella. Non m’interessa lei. A meno che non ci sia qualcuno ad accompagnarti, ovviamente». Frivolo, ironico.

«Sono sola». Non ero mai stata così sola in vita mia.

«Molto bene. Dunque, sai dov’è la scuola di danza, vicino a casa di tua madre?».

«Sì, ci so arrivare».

«Bene. A presto, allora».

Riattaccai.

Corsi via dalla stanza, via dall’appartamento, e uscii nel caldo asfissiante.

Non c’era tempo di dare un’altra occhiata a casa mia, e non volevo neanche vederla, vuota com’era: un santuario trasformato nel simbolo della paura. L’ultimo a esserci entrato era stato il mio nemico.

Con la coda dell’occhio, mi sembrava di scorgere mia madre all’ombra del grande eucalipto sotto il quale giocavo da bambina. O inginocchiata presso la piccola chiazza di fango ai piedi della cassetta della posta, il cimitero di tutti i fiori che aveva tentato di piantare. I ricordi erano meglio di qualsiasi realtà che avrei mai potuto vedere, quel giorno. Ma ero costretta a lasciarmi tutto alle spalle, dietro l’angolo.

Mi sembrava di correre così piano, come sulla sabbia bagnata, nemmeno il cemento era un punto d’appoggio abbastanza solido. Inciampavo in continuazione, caddi e mi sbucciai le mani sul marciapiede, poi mi tirai su ma solo per cadere di nuovo. Se non altro, raggiunsi l’angolo della strada. Ora mancava soltanto una via: ripresi a correre senza fiato, con il viso coperto di sudore. Il calore del sole mi cuoceva la pelle, e la luce riflessa dal cemento bianco mi accecava. Mi sentivo in pericolo, allo scoperto. Con più forza di quanta avessi mai immaginato, desideravo tornare nella verde e protettiva foresta di Forks... a casa.

Girato l’angolo che incrociava con la Cactus, vidi la scuola di danza, esattamente come la ricordavo. Il parcheggio era vuoto, le persiane sbarrate. Non riuscivo più a correre, neppure a respirare: lo sforzo e la paura mi avevano prosciugata. Solo il pensiero di mia madre mi dava la forza di mettere un piede davanti all’altro.

Mi avvicinai, e notai il cartello appeso alla porta. Era scritto a mano, su una carta rosa acceso: diceva che la scuola era chiusa per le vacanze primaverili. Sfiorai la maniglia, spinsi la porta con cautela. Non era chiusa a chiave. Mi sforzai di controllare il respiro, e l’aprii.

L’atrio era buio e vuoto, raffreddato dal condizionatore che ronzava in un angolo. Contro una parete c’era una fila di sedie di plastica, e il tappeto profumava di shampoo. La stanza di sinistra era buia, la vedevo attraverso la finestrella dell’entrata. Le luci di quella più grossa, a destra, invece erano accese. Ma la finestrella era sbarrata.

Il terrore mi assalì, tanto da farmi sentire letteralmente intrappolata. Non riuscivo nemmeno a camminare.

A quel punto, sentii la voce di mia madre.

«Bella! Bella!». Quello stesso tono isterico e ansioso. Scattai verso la porta, verso il suono della sua voce.

«Bella, mi hai spaventata! Non farlo mai più!», continuò lei, mentre mi facevo strada verso la stanza lunga, dal soffitto alto.

Mi guardai attorno per cercare di capire da dove venisse la voce. La sentii ridere, e mi voltai di scatto.

Eccola, dentro il televisore, intenta ad accarezzarmi i capelli, tranquillizzata. Era il Giorno del Ringraziamento, avevo dodici anni. Eravamo andati a trovare mia nonna in California, l’anno prima che morisse. Un giorno avevamo fatto una gita in spiaggia e mi ero sporta troppo da un molo. Aveva visto i miei piedi muoversi convulsi nel tentativo di restare in equilibrio. Spaventata, aveva urlato: «Bella! Bella!».

Poi lo schermo diventò blu.

Mi voltai lentamente. Lui era in piedi, immobile accanto all’uscita posteriore, perciò non l’avevo notato. Stringeva un telecomando. Incrociammo gli sguardi per un lunghissimo istante, e poi sorrise.

Fece qualche passo per avvicinarsi a me, poi mi oltrepassò, si accostò al videoregistratore e vi posò sopra il telecomando. Mi voltai a guardarlo, con cautela.

«Spiacente, Bella, di tutta questa messa in scena. Tuttavia è molto meglio che in realtà non abbia dovuto coinvolgere tua madre, non credi?». La sua voce era cordiale.

Così, all’improvviso, capii. Mia madre era al sicuro. Era ancora in Florida. Non aveva mai ricevuto il mio messaggio. Non era mai stata terrorizzata dagli occhi rosso scuro su quel volto assurdamente pallido che avevo davanti. Era al sicuro.

«Sì», risposi, piena di sollievo.

«Non sembri in collera con me, anche se ti ho ingannata».

«Non lo sono». L’improvviso cambiamento di umore mi diede coraggio. Cosa importava, ormai? Presto tutto sarebbe finito. Charlie e la mamma erano al riparo, non dovevano più temere nulla. Mi sentivo quasi stordita. La parte razionale del mio cervello mi avvertì che ero pericolosamente vicina a perdere i sensi per il troppo stress.

«Che strano. Dici sul serio». I suoi occhi scuri mi analizzarono, interessati. L’iride era quasi nera, con una leggera sfumatura color rubino sul bordo. Assetato. «Devo ammettere che la tua congrega aveva ragione, voi umani potete essere piuttosto interessanti, a volte. Capisco che osservare un esemplare come te sia piacevole. È incredibile... alcuni di voi sembrano totalmente privi di egoismo».

Stava a qualche spanna da me, a braccia conserte, e mi guardava con curiosità. Non c’era ombra di minaccia nella sua espressione, né nella sua posa. Era davvero anonimo, privo di tratti interessanti, nel viso e nel corpo. Solo la pelle bianca, le occhiaie a cui ormai mi ero abituata. Indossava una maglietta azzurra a maniche lunghe e jeans stinti.

«Immagino che tu stia per dirmi che prima o poi il tuo ragazzo si vendicherà», disse, e probabilmente era ciò che sperava.

«No, non credo. Gli ho chiesto di non farlo».

«E lui cosa ti ha risposto?».

«Non lo so». Era stranamente facile conversare con questo predatore educato. «Gli ho scritto una lettera».

«Che romantica, l’ultima lettera. E pensi che onorerà la tua volontà?». La sua voce si era vagamente indurita, con un velo di sarcasmo a sporcare tanta compostezza.

«Lo spero».

«Mmm, bene. Abbiamo prospettive diverse, vedo. Capirai anche tu che fin qui è stato tutto troppo facile, troppo veloce. A dire la verità, sono piuttosto deluso. Mi aspettavo una sfida molto più difficile. E in fondo mi sarebbe servita soltanto un po’ di fortuna».

Restai in silenzio.

«Dopo che Victoria non è riuscita ad arrivare a tuo padre, le ho chiesto di trovare informazioni su di te. Non aveva senso correrti dietro per l’intero pianeta quando potevo aspettarti comodo comodo nel posto che preferivo. Perciò, dopo aver parlato con Victoria, ho deciso di venire a Phoenix a salutare tua madre. Ti avevo sentita dire che saresti tornata a casa. Sulle prime, davo per scontato che stessi mentendo. Ma poi ci ho pensato per bene. Gli umani sono molto prevedibili, amano rifugiarsi nei luoghi che sentono più sicuri e familiari. E non è una manovra perfetta, nascondersi nell’ultimo posto in cui ci si immagina che tu possa nasconderti, proprio dove hai detto che ti saresti rifugiata?

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