E in quel momento i miei occhi — che erano più acuti di quanto fossero mai stati, persino nella mia giovinezza — hanno trovato una nuova stupefacente visione. L’aria che stavo espellendo dai polmoni possedeva una solidità luminosa; fuoriusciva da me piena di particelle dalla delicata lucentezza come se dentro di me fosse stato acceso un fuoco e io stessi espirando frammenti di fiamma. Era forse una rappresentazione del mio dolore? Era forse il modo in cui la stanza — o il mio stesso delirio — dava forma a quella liberazione? Quelle domande sono rimaste a fluttuare nella mia mente per una decina di secondi prima di scomparire. Le particelle stavano per svelarmi la loro vera natura, e questa non aveva niente a che fare con il dolore.
Continuavano a fluire dalla mia bocca a ogni respiro, ma io non stavo osservando quelle che avevo appena esalato. Erano le prime che erano uscite da me a catalizzare la mia attenzione. Stavano seminando la loro lucentezza nelle ombre — scomparivano nel letto nuvoloso attorno a me. Le ho guardate con quello che mi piacerebbe definire un distacco scientifico. In fondo c’era una certa logica in tutto quello che mi stava succedendo; o almeno, così immaginavo. Le ombre erano solo metà dell’equazione: erano un luogo di possibilità, niente più di questo; il fango fertile della stanza in attesa di una scintilla galvanizzante che portasse alla luce… cosa?
Quella era la domanda. Che cosa voleva mostrarmi quel matrimonio tra fuoco e ombra?
Non ho dovuto aspettare più di una manciata di secondi per scoprire la risposta. Non appena le prime particelle si sono adagiate, le ombre hanno abbandonato la loro incertezza e sono sbocciate.
I limiti della stanza del lucernario non esistevano più. Quando sono arrivate le visioni — e, oh, come sono arrivate! - sono state immense.
Prima, dalle ombre, un paesaggio. Un paesaggio assolutamente primitivo: roccia e fuoco e una massa fluente di magma. Sembrava l’inizio del mondo; rosso e nero. Ho avuto solo un istante per dare un senso a quella scena. E l’istante successivo sono stato assediato da altre immagini, lo spettacolo davanti a me che si trasformava a ogni battito del mio cuore. Qualcosa stava sorgendo dal fuoco, oro e verde, levandosi in un cielo pieno di fumo. E mentre si alzava, i boccioli che portava sono diventali frutti e sono caduti sul terreno di lava. Non ho avuto nemmeno il tempo di guardarli consumarsi. Un movimento nel fumo alla mia destra ha attratto la mia attenzione. Un animale di qualche genere — dai fianchi pallidi, segnati da cicatrici — è entrato al galoppo nel mio campo visivo. Ho sentito la violenza dei suoi zoccoli nelle mie viscere. E prima che scomparisse ne è comparso un altro, e un altro ancora, e poi una mandria di quelle creature — non cavalli ma qualcosa di simile. Ero stato io a generarle? Le avevo forse esalate con il mio dolore; e anche il fuoco e le rocce e l’albero che sorgeva dalle rocce? Era tutta una mia invenzione o si trattava forse di un qualche ricordo remoto che gli incanti della stanza avevano reso visibile?
Mentre davo forma a quei pensieri, la mandria pallida ha cambiato direzione puntando verso di me. Istintivamente mi sono coperto la testa per proteggermi. Ma nonostante tutta la furia dei loro zoccoli, il loro passaggio non mi ha procurato più danni di quanti me ne avrebbe causati una leggera brezza; sono passati sopra di me e si sono allontanati.
Ho alzato lo sguardo. Nei pochi secondi in cui avevo distolto gli occhi, il terreno aveva dato vita a una nascita prodigiosa. Da ogni parte c’erano nuovi spettacoli da ammirare. Vicino a me, nell’aria stessa da cui veniva scolpito, si contorceva un serpente dai colori sgargianti come quelli di un fiore. Prima ancora che fosse del tutto creato, è stato afferrato da un’altra creatura e i miei occhi hanno incontrato una forma vagamente umana ma sottile e alata. Il serpente è scomparso in un secondo, inghiottito da questa nuova creatura che infine ha spostato lo sguardo su di me come se si stesse chiedendo se anch’io fossi commestibile. Chiaramente le sono apparso come una misera preda. Sbattendo le ali gigantesche, la creatura si è levata come un sipario per rivelare un altro dramma, ancora più strano.
L’albero che avevo visto nascere aveva sparso i suoi semi in ogni direzione. Nel giro di pochi istanti era sbocciata una foresta, dai rami e dal fogliame scuri come nubi temporalesche. E a saettare tra gli alberi c’erano creature di ogni genere, che salivano per nidificare e cadevano per decomporsi. Vicino a me è comparsa un’antilope pezzata che defecava per il terrore. Ho cercato la ragione della sua paura e là, a pochi metri dall’antilope, ho visto qualcosa che si muoveva tra gli alberi. Sono riuscito a scorgere solo il luccichio di un occhio o di una zanna prima che la creatura balzasse fuori dal suo nascondiglio, piombando sulla sua preda. Era una tigre, grande come quattro o cinque uomini. L’antilope ha cercato di darsi alla fuga ma il predatore non le ha lasciato scampo. Gli artigli della tigre sono affondati nei fianchi setosi dell’antilope, e la morte della preda non è stata né rapida né pietosa. L’antilope si è agitata selvaggiamente, anche se il suo corpo era già lacerato e la tigre le stava aprendo la gola sottile. Non ho distolto lo sguardo. Ho continuato a osservare la scena finché l’antilope non è stata ridotta a semplice carne fumante e la tigre si è accovacciata per cibarsene. Solo allora ho permesso ai miei occhi di allontanarsi in cerca di nuove distrazioni.
Ho notato qualcosa di luminoso tra gli alberi, più luminoso col passare di ogni istante. Come un fuoco affamato, si è arrampicato tra la vegetazione mentre si avvicinava. Nel fitto della foresta è dilagato il caos, mentre ogni specie — prede e cacciatori insieme — fuggiva al cospetto del bagliore. Ma sopra di me non c’era alcuna via di scampo. Il fuoco si è propagato troppo velocemente, consumando gli uccelli in volo e nei nidi, le scimmie e gli scoiattoli sui rami. Attorno a me sono caduti innumerevoli cadaveri anneriti e fumanti. E insieme a quei corpi hanno preso a scendere ceneri bianche e incandescenti.
Non temevo per la mia vita. Ormai conoscevo abbastanza bene quel luogo da poter confidare in una certa immunità. Ma quella scena mi ha colpito ugualmente. A cosa stavo assistendo? A una sorta di cataclisma primitivo che aveva piagato questo mondo? Che lo aveva disgregato dal cielo alla terra? E se sì, qual era la fonte del disastro? Non era un evento naturale, ne ero certo. Il bagliore sopra di me era ormai diventato una specie di tetto che nel momento della distruzione creava una volta lavorata in cui le vittime venivano immortalate nel fuoco. I miei occhi si sono riempiti di lacrime a quella vista. Ho sollevato una mano per asciugarmeli così da non perdere nemmeno una delle nuove glorie e nemmeno uno dei nuovi orrori che mi attendevano, e in quell’istante nel mio cuore ho sentito il primo suono prodotto da un essere umano da quando ero entrato nella stanza.
Non è stata una parola; o, se lo è stata, non si è trattato di una parola che conoscessi. Ma aveva un significato, ne ero convinto. Al mio orecchio è risuonata come il grido di un’anima appena nata nel bel mezzo del bagliore; un grido di celebrazione e di sfida. Eccomi! sembrava dire. Ora incominciamo!
Mi sono sollevato sulle mani, cercando di vedere chi stava gridando (uomo o donna che fosse), ma la pioggia di cenere e detriti era come un velo davanti a me e non sono riuscito a vedere quasi niente.
Le braccia non sono riuscite e sostenermi per più di pochi istanti. Ma mentre mi lasciavo ricadere sul terreno in preda alla frustrazione, il fuoco sopra di me — che forse aveva esaurito il suo nutrimento — si è spento. La cenere ha smesso di cadere. E là, a una ventina di metri da me, circondata dal bagliore come da un immenso fiore di fuoco, c’era Cesaria. Niente nel suo aspetto o nella sua espressione faceva pensare che il fuoco rappresentasse una minaccia per lei. Tutt’altro. Piuttosto sembrava godere di quel contatto; le sue mani si muovevano lungo il suo corpo mentre l’esplosione lo inondava, come se si stesse assicurando che quel balsamo penetrasse in ogni suo poro. I suoi capelli, ancora più neri della sua pelle, si torcevano e crepitavano; dai suoi seni sgorgava latte, i suoi occhi piangevano lacrime argentee e il suo sesso, che lei di tanto in tanto si toccava, generava fiumi di sangue.
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