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Clive Barker: Galilee

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Clive Barker Galilee

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Una saga grandiosa in bilico fra realtà e soprannaturale dove si intrecciano i destini di due famiglie — una di stirpe divina, l'altra umana ma potentissima - divise da sempre da un odio atavico. E quando scatta il colpo di fulmine tra Rachel e Galilee, i discendenti delle due dinastie, gli antichi rancori riemergono scatenando una travolgente guerra dei mondi attraverso il Tempo e lo Spazio. Tradimenti, lussuria e magnifiche visioni metafisiche in una storia di linee di sangue intrecciate che riflette i conflitti celati nella nostra anima più segreta.

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Clive Barker

Galilee

a Emilian David Armstrong

RINGRAZIAMENTI

Sono stato così fortunato da non intraprendere questo viaggio da solo. Vorrei spendere qualche parola di apprezzamento per coloro che mi hanno accompagnato.

A Vann Sauls, della McGee’s Crossroads, North Carolina, per la sua amicizia, la sua arguzia, e per le visioni che ha condiviso con me esplorando insieme le Carolina. Senza le nostre conversazioni mentre vagavamo per le strade di mezzanotte a Charleston, e nei boschi di Bentonville, dove gli eserciti del Nord e del Sud si scontrarono così tragicamente, di certo questo libro non sarebbe stato così ricco.

A Robb Humphreys e Joe Daley, che mi hanno assistito nelle mie ricerche più oscure, scovando sempre sugli scaffali delle biblioteche i libri che contenevano le informazioni e gli spunti più vitali.

Alla mia cara Anna Miller, che insieme a Robb e Joe dirige la nostra casa di produzione cinematografica qui a L.A. Mentre ero in mare con Galilee, Anna ha saputo domare le seduzioni e le follie di questa città con una sedia e una frusta.

A Don Mackay, che mi ha concesso il grande onore di battere a macchina questo manoscritto, come unica distrazione dalla sua vera vocazione, quella dell’attore.

E, infine, a David John Dodds, che fa in modo che il mondo in cui vivo e lavoro funzioni alla perfezione, un compito tutt’altro che facile. David è mio amico e angelo custode da tredici anni. Niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza il suo amore e la sua fiducia in me.

C.B.

PARTE PRIMA

Il tempo che è rimasto

Uno

1

Per volere della mia matrigna, Cesaria Barbarossa, la casa in cui mi trovo in questo momento fu costruita in modo che fosse rivolta a sud-est. L’architetto — che fu nientemeno che il terzo presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson — contestò quella decisione più volte e con grande eloquenza. Qui sulla mia scrivania ho le lettere che Jefferson scrisse a questo proposito. Ma la mia matrigna fu irremovibile. La casa doveva essere rivolta verso la sua terra natale, verso l’Africa, e lui, quale suo impiegato, dovette fare ciò che gli era stato ordinato.

È molto chiaro, comunque, leggere tra le righe delle missive di Cesaria (sono in possesso anche di quelle; o, almeno, delle minute di quelle lettere) che Jefferson era ben più che un semplice architetto; e che lei, per lui, era ben più che una donna testarda animata dal perverso desiderio di costruire una casa in una palude del North Carolina, rivolta a sud-est. Si scrivevano come due persone che condividevano un segreto.

Anch’io conosco alcuni segreti; e, fortunatamente per la completezza di ciò che seguirà, non ho alcuna intenzione di mantenerli.

È giunto il tempo di raccontare tutto ciò che so. E tutto ciò che posso scoprire o presumere. E tutto ciò che posso inventare. Se svolgerò il mio compito nel modo giusto, sono certo che non vi importerà nemmeno cosa è cosa. Ciò che apparirà su queste pagine sarà, mi auguro, una storia fluida che descriverà le azioni e i destini che attraverseranno tutto il mondo. Alcuni saranno a dir poco strani eventi, messi in atto da anime tormentate e sgradevoli. Ma, come regola generale, dovreste tener conto che più improbabili saranno gli avvenimenti che vi mostrerò su questo palcoscenico, più sarò in grado di dimostrare la veridicità di ciò che è accaduto. Ho il sospetto che le cose che inventerò saranno banali in confronto alla verità. E, come ho già detto, è mia intenzione non farvi capire la differenza. Ho deciso di intrecciare gli elementi della mia storia così abilmente che smetterete di chiedervi se un certo avvenimento sia accaduto là fuori, nello stesso mondo in cui voi camminate, o qui dentro, nella testa di uno storpio che non lascerà mai più la casa della sua matrigna.

Questa casa, questa gloriosa casa!

Quando Jefferson cominciò a dedicarsi a questo progetto, era ancora piuttosto lontano da Pennsylvania Avenue, ma era tutt’altro che uno sconosciuto. Era il 1790. Aveva già firmato la Dichiarazione d’Indipendenza ed era stato ministro degli Stati Uniti presso il governo francese. Dalla sua penna erano scaturite grandi parole. Eppure eccolo che sottrae tempo ai suoi doveri a Washington e ai lavori della sua stessa casa, per scrivere lunghe lettere alla moglie di mio padre, in cui i dettagli della costruzione di questa casa e le sfumature del suo cuore sono squisitamente intrecciati.

Se questo non vi sembra abbastanza straordinario, tenete presente che Cesaria è una donna di colore, e Jefferson, nonostante tutte le sue contestazioni democratiche, era il proprietario di qualcosa come duecento schiavi. Perciò, quanta influenza doveva esercitare su di lui per riuscire a persuaderlo a lavorare per lei, come infine accadde? È un testamento dei suoi poteri di incantatrice — i poteri che in questo caso esercitò, come le piaceva dire, “senza juju”. In altre parole: nel trattare con Jefferson, Cesaria era semplicemente, dolcemente, e persino candidamente, umana. Quali che fossero le sue capacità di piegare in modo soprannaturale un animo umano — e sono molte — amava troppo la chiarezza con cui Jefferson guardava il mondo per provare ad accecarlo in alcun modo. Se le era devoto, era soltanto perché la mia matrigna era degna della sua devozione.

Battezzarono la casa che Jefferson costruì per lei L’Enfant. In effetti, credo che il nome completo fosse L’Enfant de les Carolinas. Posso solo formulare delle ipotesi sulla ragione per cui la chiamarono così.

Il fatto che il nome sia in francese non deve destare meraviglia: si erano conosciuti nei saloni dorati di Parigi. Ma perché proprio quel nome? Ho due teorie, in proposito. La prima, e più ovvia, è che la casa fosse in qualche modo il prodotto della loro relazione — il loro bambino, se volete -, e quindi la chiamarono di conseguenza. La seconda è che fosse il figlio di un genitore architettonico, della casa di Jefferson stesso a Monticello, il luogo in cui il suo genio risplendette per gran parte della sua vita. È tre volte più grande della casa di Jefferson (Monticello è circa novecento metri quadrati; L’Enfant, invece, è poco più di duemilasettecento) e ha nelle sue vicinanze una serie di strutture di servizio minori, mentre l’abitazione di Jefferson è costituita da un’unica struttura che comprende i quartieri degli schiavi e della servitù, le cucine e le toilette, tutto sotto uno stesso tetto. Ma per altri aspetti le due case sono molto simili. Entrambe sono rielaborazioni jeffersoniane di modelli palladiani; entrambe hanno doppi portici, volte ottagonali, ampie stanze dagli alti soffitti e dalle numerose finestre, entrambe sono più pratiche che appariscenti; entrambe, direi, sono strutture che comunicano una grande sicurezza e un grande amore.

Naturalmente, sono situate in paesaggi completamente diversi. Monticello, come il suo nome suggerisce, sorge su una montagna. L’Enfant si trova su un basso appezzamento di terreno di quarantasette acri, la cui estremità sudorientale è una palude imbonificabile, mentre il perimetro settentrionale è un bosco composto principalmente da pini. La casa vera e propria si erge su una modesta altura, che la protegge dalle paludi e dalla vegetazione di questa zona, ma non abbastanza da impedire alle cantine di allagarsi durante gli acquazzoni e alle stanze di diventare terribilmente fredde in inverno e umide in modo infernale d’estate. Non che mi lamenti. L’Enfant è una casa straordinaria. Talvolta penso che abbia un’anima tutta sua. Senza dubbio, sembra conoscere gli umori dei suoi occupanti e sa assecondarli. Ci sono stati momenti in cui, mentre sedevo nel mio studio, un pensiero nero mi ha attraversato la mente per qualche ragione, e vi posso giurare che la stanza si è fatta più oscura, per empatia verso di me. Non ci sono cambiamenti fisici — le tende non si chiudono, le macchie non si allargano — tuttavia ho sentito una sottile trasformazione nella stanza; come se volesse seguire il ritmo del mio umore. E lo stesso vale per i giorni in cui sono allegro, oppure ossessionato dai dubbi, o anche semplicemente pigro. Forse è stato il genio di Jefferson a creare questa illusione di empatia, o forse è opera di Cesaria: del suo genio sposato a quello dell’architetto. Quale che sia la ragione, L’Enfant ci conosce. Meglio, mi capita di pensare talvolta, di quanto noi conosciamo noi stessi.

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