Clive Barker - Galilee

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Galilee: краткое содержание, описание и аннотация

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Una saga grandiosa in bilico fra realtà e soprannaturale dove si intrecciano i destini di due famiglie — una di stirpe divina, l'altra umana ma potentissima - divise da sempre da un odio atavico. E quando scatta il colpo di fulmine tra Rachel e Galilee, i discendenti delle due dinastie, gli antichi rancori riemergono scatenando una travolgente guerra dei mondi attraverso il Tempo e lo Spazio. Tradimenti, lussuria e magnifiche visioni metafisiche in una storia di linee di sangue intrecciate che riflette i conflitti celati nella nostra anima più segreta.

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Ho fissato il corridoio.

“Immagino che questa sia la mia risposta, allora”, ho sospirato.

“Quindi entri?”

“Sì, entro.”

Luman ha sorriso. “Aspetta”, ha detto, e poi ha fatto una cosa straordinaria. Ha sollevato me e la sedia a rotelle e ci ha portati entrambi su per le scale. Ho trattenuto il fiato, temendo che potesse farmi cadere o scivolare lungo la rampa. Ma abbiamo raggiunto la cima delle scale senza problemi. C’era uno stretto pianerottolo con un’unica porta.

“Ti lascio qui”, ha detto Luman.

“Non ti spingi oltre?”

“Lo sai come si apre una porta”, ha osservato lui.

“Che cosa succederà quando sarò dentro?”

“Scoprirai che sai anche questo.” Mi ha appoggiato una mano sulla spalla. “Se hai bisogno di qualcosa, chiama.”

“Tu sarai qui?”

“Dipenderà da come mi prende l’umore”, ha replicato lui, quindi è corso giù per le scale. Avrei voluto chiamarlo, ma ero a corto di tattiche per prendere tempo. Era arrivato il momento di farlo, se davvero me la sentivo.

Mi sono avvicinato alla porta, girandomi una sola volta per controllare se Luman era ancora in vista. Era scomparso. Ero rimasto solo. Ho fatto un profondo respiro e ho afferrato la maniglia della porta. C’era ancora una piccola parte di me che sperava che la porta fosse chiusa a chiave, che sperava che non sarei potuto entrare. Ma la porta si è aperta, quasi troppo prontamente, come se dall’altra parte mi attendesse un ospite molto zelante.

Avevo una vaga idea di ciò che avrei trovato dall’altra parte, almeno dal punto di vista architettonico. La stanza della cupola — detta anche “stanza del cielo”, come Jefferson aveva ribattezzato la sua a Monticello — era un ambiente in qualche modo strano ma bellissimo (così mi aveva detto Marietta, che ci era sgattaiolata una volta in compagnia di una delle sue amanti). A Monticello era stata usata come stanza dei giochi per i bambini, perché era difficile da raggiungere, ma la versione dell’Enfant trasmetteva un vago disagio; nessun bambino sarebbe mai stato felice di giocare lì. Anche se c’erano otto finestre e un lucernario, quel luogo era, per usare le parole di Marietta, “un tantino angosciante”.

Ho spalancato la porta con un piede, quasi aspettandomi di essere investito da un volo di uccelli o di pipistrelli. Ma la stanza era deserta. Non c’era nemmeno un solo mobile a rovinarne l’assoluta semplicità. Solo la luce delle stelle che filtrava da nove aperture.

“Luman”, ho mormorato tra me e me, “figlio di puttana…”

Mi aveva preparato per qualcosa di ben più spaventoso; un delirio, un assalto di visioni così violente capaci di farmi perdere la ragione. Ma lì non c’era niente, tranne la semioscurità.

Mi sono spinto avanti per un paio di metri, cercando attorno a me un buon motivo per avere paura. Non ho trovato niente. Ho continuato ad avanzare, provando un miscuglio di delusione e sollievo. Non c’era niente da temere, lì. La mia sanità mentale non correva alcun rischio.

A meno che, naturalmente, quel senso di sicurezza non fosse deliberatamente illusorio. Mi sono voltato a lanciare un’occhiata in direzione della porta. Era ancora aperta; ancora solida. E oltre la porta, c’era il pianerottolo dove insieme a Luman avevo discusso dell’eventualità di entrare o meno. Che bersaglio facile ero stato; doveva essersi divertito terribilmente nel vedere il mio disagio! Imprecando di nuovo contro di lui, ho distolto lo sguardo dalla porta e ho ricominciato a scrutare l’oscurità. Questa volta però, con mio grande stupore, mi sono accorto che la stanza del cielo non era così vuota come avevo pensato in un primo momento. A qualche metro da me — nel punto in cui si intersecavano le luci delle nove finestre — c’era una forma che vibrava tra le ombre, così sottile che all’inizio sono stato certo che non fosse nemmeno reale. Ho continuato a fissarla, resistendo all’impulso di sbattere le palpebre per paura che sarebbe svanita. Ma è rimasta davanti a me, e il suo movimento si è intensificato. Mi sono spinto in direzione della forma; lentamente, lentamente, come un cacciatore che si avvicina alla sua preda, cercando di non spaventarla. Ma la forma non si è allontanata. Né è diventata meno misteriosa. Ho continuato ad avvicinarmi con minor cautela, e ben presto mi sono trovato al centro della stanza, proprio sotto il lucernario. C’erano sagome nell’aria tutto attorno a me, sagome così evanescenti che non ero del tutto sicuro che esistessero davvero. Ho alzato lo sguardo sul mio zenit: ho visto le stelle attraverso il lucernario, ma non c’era niente che potesse proiettare quelle ombre mutevoli. Ho osservato le pareti, spostando gli occhi da una finestra a quella successiva, in cerca di una spiegazione. Ma non ho trovato niente. Dalle finestre filtrava un po’ di luce, ma non c’era alcuna traccia di movimento: un ramo sospinto dal vento, il battito di ali di un uccello su un davanzale. Qualunque cosa stesse proiettando le ombre, era lì nella stanza con me. Ho smesso di scrutare le finestre, borbottando confuso tra me e me, e ho avuto la sgradevole sensazione di essere osservato. Ho guardato di nuovo verso la porta, pensando che Luman potesse essere tornato di soppiatto per spiarmi. Ma no: il pianerottolo era deserto.

Be’, ho pensato, non c’è ragione che resti seduto qui a diventare sempre più paranoico. Tanto vale dichiarare apertamente le ragioni per cui sono venuto e vedere se qualcuno mi risponde.

Ho tratto un respiro ansioso e ho parlato.

“Sono venuto… sono venuto a vedere il passato”, ho detto. La mia voce sembrava flebile, come quella di un bambino. “Mi ha mandato Cesaria”, ho aggiunto, pensando che questo potesse in qualche modo assicurare alle forze che abitavano la stanza che la mia presenza era legittima, e quindi, se avevano qualcosa da mostrarmi, dannazione, che lo facessero.

Qualcosa di quanto avevo appena detto — forse l’accenno al passato o forse il nome di Cesaria — ha suscitato una risposta. Le ombre attorno a me si sono fatte più scure e i loro movimenti più complessi. Una qualche parte della sagoma, che si contorceva come una cosa viva, si è levata di fronte a me: su, su, verso il lucernario. Un’altra è volata verso la parete alla mia sinistra, trascinandosi dietro altri frammenti di aria scura, agitandosi come la coda di un aquilone. E un’altra ancora è caduta sulle assi lucide, allargandosi sul pavimento.

Credo di aver sussurrato qualche parola di stupore. “Oh mio Dio”, o qualcosa di simile. Avevo le mie buone ragioni. Quello spettacolo stava crescendo col trascorrere di ogni istante, le contorsioni di quelle ombre e le loro dimensioni si espandevano quasi che seguissero una qualche progressione logaritmica. Movimento che ispirava movimento; forme che ispiravano forme. Nell’arco di forse quarantacinque secondi, tutte le pareti della camera sono state eclissate da quelle astrazioni inquiete; grigio su grigio, eppure riempito di sottili accenni di visioni a venire. I miei occhi saettavano in ogni direzione, sbalorditi da ciò che vedevano, ma anche mentre il mio sguardo si spostava da un gruppo di forme nuvolose all’altro, avevo l’impressione che ci fosse qualcosa di quasi visibile attorno a me. Che fossi in procinto di capire il funzionamento di quelle astrazioni.

Eppure, persino in quella loro condizione mutevole, mi hanno toccato profondamente. Guardando quei movimenti sinuosi e contorti, ho incominciato a capire perché Luman fosse stato così riluttante all’idea di entrare in quella stanza. Nonostante i suoi modi, era un uomo di grande vulnerabilità: c’erano semplicernente troppe sensazioni per un’anima così tenera, lì. E continuando a guardare, ho avuto l’impressione di ascoltare una partitura musicale; o meglio, diverse partiture allo stesso tempo.

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