Non riesco a fare niente, se non pensare a quel volto. Pensare a Elise McKenna e a ciò che era.
Dovrei prepararmi per Denver, per l’odissea che avevo progettato. Invece, me ne sto qui come uno straccio, col volto di Elise stampato nella mente. Sono sceso giù altre tre volte. Un ovvio tentativo di sfuggire alla realtà. La mente che si rifiuta di accettare il presente e si rifugia nel passato.
Ma… Anima mia, in questo momento mi sento vittima di uno scherzo sadico. Non ho il minimo desiderio di abbandonarmi all’autocommiserazione, però, Gesù Cristo!, lanciare una moneta, guidare per più di duecento chilometri fino a una città che non ho mai visto, uscire dalla superstrada per una bizza dei nervi, attraversare un ponte per scoprire un hotel che non sapevo nemmeno esistesse, e lì vedere la fotografia di una donna morta da tanti anni, e, per la prima volta in vita mia, innamorarmi?
Cosa dice sempre Mary? “Troppo peso per il cuore.”
È esattamente ciò che provo io.
Ho fatto una passeggiata sulla spiaggia. Ho bevuto un drink nel salone vittoriano. Ho fissato di nuovo la fotografia. Sono tornato in spiaggia e mi sono seduto sulla sabbia e ho guardato le onde.
Non è servito a niente. Non so sfuggire a quella sensazione. Con gli scarsi rimasugli di razionalità, mi rendo conto “giuro!” che sto cercando qualcosa a cui aggrapparmi, che non è necessario che questo qualcosa sia reale, e che Elise McKenna è diventata quel qualcosa.
Capirlo non mi aiuta. Questa cosa sta crescendo in me; diventa un’ossessione. Prima, nel salone della Storia, mi è occorsa tutta la mia forza di volontà per non rompere il vetro della vetrinetta, rubare la fotografia, e scappare.
Ehi! Un’idea! Potrei fare qualcosa. Niente che fermi quello che mi sta succedendo, niente che mi garantisca di non peggiorare la situazione, però qualcosa di concreto, invece di continuare a piangermi addosso.
Andrò in una libreria del posto, o forse, meglio, di San Diego, e troverò qualche volume su di lei. Sono sicuro che debbono essercene almeno uno o due. Il programma del salone la definisce “la famosa attrice americana”.
Sì, certo! Scoprirò tutto il possibile sul mio amore perso per sempre. Perso? Okay, okay. Sul mio amore che non ha mai saputo di essere il mio amore perché è diventata il mio amore solo dopo essere morta.
Chissà dove è sepolta.
Un brivido. L’idea di lei sepolta mi raggela. Quel viso, morto?
Impossibile.
Negli anni del college, ricordo che la mia padrona di casa (una seguace di scientologia cristiana, ottantasette anni) si occupava di una donna di novantasei anni per la quale aveva lavorato in passato. La donna più anziana, la signorina Jenny, non poteva alzarsi dal letto. Era paralizzata, era sorda, era cieca, se la faceva addosso a letto. Era più vegetale che animale. Il mio compagno di stanza e io (me ne vergogno, adesso) scoppiavamo a ridere quando lei strillava con quella sua vocina esile: — Signorina Ada, signorina Ada! Voglio alzarmi! — Giorno e notte, erano quelle le uniche parole a uscire dalle labbra di una donna che non avrebbe mai potuto alzarsi.
Un giorno, entrato nel soggiorno della signorina Ada per usare il suo telefono, ho scoperto la foto di una splendida ragazza in abito a collo alto, con capelli scuri e lunghi e soffici: la signorina Jenny da giovane. E ho provato uno stranissimo senso di disorientamento. Perché quella ragazza mi attraeva, ma sentivo anche, nella stanza vicina, la signorina Jenny che lanciava richiami con la sua voce antica, cieca e sorda e totalmente paralizzata. Voleva alzarsi. È stato un momento di raggelante ambivalenza, un momento che a diciannove anni non ero in grado di affrontare molto bene.
Non so ancora affrontarlo.
L’inserviente ha portato davanti all’hotel la mia automobile. Non la uso solo da ieri pomeriggio, però mi sembra strana: più un oggetto estraneo che una cosa mia. Guidarla è ancora più strano. Nel giro di una notte ho perso tutto il mio feeling per questa macchina.
Ho telefonato a qualche libreria di Coronado; non avevano niente. Mi hanno detto di rivolgermi a Wahrenbrock, a San Diego. L’inserviente mi ha spiegato come arrivarci: attraversare il ponte, prendere a nord sulla superstrada, uscire alla Sesta, continuare fino alla Broadway.
Sono sul ponte. Vedo davanti la città; montagne sullo sfondo. Una sensazione bizzarra: più mi allontano dall’hotel, e più mi allontano da Elise McKenna. Lei appartiene al passato. Come l’hotel. È una specie di tempio per la preservazione e la cura di ciò che è stato ieri.
Non troppo traffico sulla superstrada. Più avanti c’è un cartello: LOS ANGELES. Stanno cercando di ingannarmi, di convincermi che quella città esiste ancora.
La Sesta Strada esiste, più giù.
Più tardi. Sto tornando, sull’orlo di una crisi. Cristo, se sono nervoso. San Diego mi ha steso. La frenesia, la folla, il caos, la “presenza” pulsante, allucinante della città. Sono stravolto, stordito.
Grazie a Dio non ho avuto problemi a trovare la libreria, e grazie a Dio era un’oasi di pace nel deserto dell’adesso. In una situazione diversa, mi ci sarei fermato per ore, a curiosare tra le migliaia e migliaia di volumi, fra due piani (più seminterrato) di puro fascino.
Però ero in cerca di qualcosa, e sentivo il bisogno di tornare all’hotel. Così ho comperato tutto ciò che ho trovato; non troppo, temo. Il tizio mi ha detto che, per quanto ne sa, non esistono volumi dedicati solo a Elise McKenna. Probabilmente, Elise non era poi tanto importante. Non per il pubblico, comunque, o per la storia. Per me, significa tutto.
Vedo in lontananza l’hotel, e un’ondata di desiderio mi invade. Vorrei poter trasmettere quello che provo, la sensazione di tornare a casa.
Sto tornando, Elise.
Nella mia stanza. Sono le tre appena passate. Incredibile la forza della sensazione che ho provato rientrando all’hotel. Non si è costruita gradualmente, come ieri; mi è piombata addosso d’un colpo. Mi ci sono subito sentito immerso, consolato: l’abbraccio del passato. Non saprei trovare altre descrizioni.
Una volta, ho letto un articolo sulla proiezione astrale, sui viaggi che il cosiddetto corpo immateriale che tutti noi dovremmo possedere fa mentre dormiamo. La mia esperienza è similare. È stato come se, andando a San Diego, io abbia lasciato una parte di me nell’atmosfera dell’hotel, e come se l’altra parte vi fosse collegata da una lunga corda sottile, sempre più tesa. A San Diego, quella corda era tesa al massimo, e sottilissima, il che mi rendeva vulnerabile all’impatto del presente.
Poi, mentre tornavo, la corda ha cominciato ad accorciarsi, a ispessirsi, ed è riuscita a trasmettermi molto più di quest’atmosfera accogliente. Quando ho intravisto la struttura possente dell’hotel sopra gli alberi lontani, ho quasi urlato di gioia. Quasi un corno. Ho urlato.
Adesso sono di nuovo qui, e ho riconquistato la pace. Circondato da questa fortezza senza tempo sulla spiaggia, non andrò mai più a San Diego. È certo.
Ho ripreso a scrivere. Ascolto in cuffia la Quinta di Mahler. Bernstein e la New York Philharmonic. Splendido. La adoro.
Ma veniamo ai libri.
Il primo è di John Fraser. Si intitola Astri del teatro americano. Sto leggendo le due pagine dedicate a lei.
Sulla pagina di sinistra, in alto, c’è una serie di foto che la ritraggono dall’infanzia alla vecchiaia. Già mi turba vedere quel volto splendido che invecchia passando da sinistra a destra.
Nella seconda fila ci sono due foto più grandi: una di lei molto anziana, una in cui è molto giovane; e una simile alla foto del salone della Storia: quel volto franco, squisito, con i lunghi capelli che cadono sulle spalle; Elise com’era in Il piccolo ministro.
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