Quanti centri cittadini vedrò? Denver? Salt Lake City? Kansas City? Devo fermarmi a Columbia un giorno o due.
Un’idea divertente. Diventerò un criminale perché non ho intenzione di pagare nemmeno un’altra rata dell’automobile. E la sa una cosa, signor Ford? Non me ne frega niente.
Gesù!
Un camion mi si è parato di fronte all’improvviso e io ho dovuto cambiare corsia al volo. Il mio cuore si è messo a battere forte perché non ho avuto il tempo di controllare se nella corsia ci fosse qualcuno subito dietro me.
Il mio cuore batte ancora forte, e io mi sento sollevato al pensiero di essere in salvo.
Fino a dove può arrivare la stupidità?
Adesso vedo i suoi tre fumaioli rossi, con la punta nera. È cementata lì? Mi sento già triste per lei. Relegare sulla terraferma una nave del genere è come impagliare un’aquila. Può ancora apparire imponente, ma i suoi giorni di gloria sono finiti.
La Queen ha appena parlato; un urlo assordante che ha fatto tremare l’aria. Quanto è enorme. Un Empire State Building coricato di fianco.
Ho pagato alla cassa rossa, ho infilato la scala mobile, e adesso percorro lentamente la passeggiata coperta, avvicinandomi a lei. Alla mia destra c’è il porto di Long Beach, con l’acqua molto azzurra e molto agitata. A sinistra, un ragazzino mi fissa. Chi è l’uomo buffo che parla in una scatola nera?
Più avanti, un’altra scala mobile, molto lunga. Quanto è alta la Queen? Venti piani, direi.
Seduto nel salone centrale. Finiture in legno degli anni Trenta. Strano che le giudicassero chic. Grandi colonne. Tavoli, sedie. Una pista da ballo. Sul palco, un pianoforte a coda.
Una galleria; negozi attorno a una piazza col pavimento a piastrelle. In alto, lampadari grossi come ruote da autocarro. E un tempo tutto questo galleggiava? Incredibile. Come sono andate le cose sul Titanic? Provate a immaginare un posto come questo spazzato da un mare gelido. Una visione spaventosa.
Mi piacerebbe sgattaiolare sotto, nella parte buia, dove si trovano le cabine. Camminare fra i corridoi muti, immersi nell’ombra. Chissà se sono infestati.
Ovviamente non lo farò. Obbedirò alle regole.
Le vecchie abitudini sono più dure a morire di chi le pratica.
Un ingrandimento fotografico sulla paratia. Gertrude Lawrence con il suo cane bianco. Come quello che hanno usato nell’ Oliver Twist di David Lean: brutto, tozzo, e con le orecchie a punta.
La signorina Lawrence sorride. Mentre passeggia sul ponte della Queen, non si rende conto di avere alle calcagna la mortalità.
Fotografie in una vetrina con la placca che dice MEMORABILIA.
David Niven che esegue una danza scozzese. È molto allegro. Non sa che sua moglie morirà presto. Guardo quel momento congelato e provo l’inquietante sensazione di essere dio.
C’è Gloria Swanson in pelliccia. C’è Leslie Howard; com’è giovane. Ricordo di averlo visto in un film che si intitolava La strana realtà di Peter Standish. Ricordo che viaggiava all’indietro nel tempo fino al diciottesimo secolo.
In un certo senso, in questo momento sto facendo una cosa simile. Stare su questa nave significa trovarmi parzialmente negli anni Trenta. Anche la musica che ho attorno è in clima con l’epoca. Deve essere la musica che si suonava sulla Queen a quei tempi; è così datata, così magnificamente ritmata.
Un cartello sulla parete dice: VARATA DA SUA MAESTÀ LA REGINA IL 26 SETTEMBRE 1934. Cinque mesi prima che nascessi io.
Seduto nel bar belvedere. Però non ho attorno uomini in completo scuro, non c’è un bicchiere sul mio tavolo. Solo turisti e caffè nero in una tazza di plastica, una mela caramellata cotta in un forno di Anaheim.
Le dispiace? mi chiedo. La Queen accetta la caduta in disgrazia? Oppure è arrabbiata? Io lo sarei.
Guardo dalla parte del bancone. Come si viveva a quei tempi? Dacci un gin and tonic, Harry. Un bicchiere di vino bianco. J.B. on the rocks, per favore. Adesso, sandwiches incellofanati e latte freddo come ghiaccio e caffè bollente.
Sopra il bancone c’è un affresco. Gente che danza, che si tiene per mano, in un ovale allungato, dai bordi sottili. Chi dovrebbero essere? Tutti quanti sono surgelati come questa nave.
Provo una strana sensazione allo stomaco. Un po’ come quella che provo guardando un film sulle corse automobilistiche quando c’è una scena ripresa dall’interno dell’auto: il mio corpo sa di essere immobile, però visivamente viaggio ad alta velocità, e l’insolubile contrasto mi dà la nausea.
Qui la sensazione è capovolta e altrettanto sgradevole. Qui sono io a muovermi, e l’ambiente della Queen è fermo. Ha senso? Ne dubito. Ma questo posto comincia a mettermi i brividi.
L’area per gli ufficiali. Ci sono soltanto io, nell’intervallo fra un giro turistico e il successivo. Adesso la sensazione è intensa; qualcosa che preme sul mio plesso solare. I suoni la aumentano; annunci fatti tanto tempo fa a bordo della Queen: — La signorina Molly Brown è pregata di contattare l’ufficio informazioni. — L’Inaffondabile?
Una campana rintocca mentre guardo nella stanza di riposo del capitano. La gente era più piccola, a quell’epoca? Quelle sedie mi paiono minuscole. Un altro annuncio: — Angela Hampton ha un telegramma che la attende nell’ufficio del commissario di bordo. — Dov’è Angela adesso? Ha avuto il suo telegramma? Spero portasse buone notizie.
Biglietti d’invito sulla parete. Uniformi immobili dietro vetrine. Libri sugli scaffali. Tende, orologi. Una scrivania, un telefono bianco chiaro. Tutto immobile, statico.
Il ponte di navigazione. Lo chiamavano “centro nevralgico”. Lucido, luminoso, e morto. Quelle ruote non gireranno mai più. Quel telegrafo non trasmetterà più ordini alla sala motori. Quello schermo radar resterà sempre scuro.
Ho dovuto lasciare la parte della nave riservata ai giri guidati. Mi sento ancora strano. Sto seduto su una panchina nel museo. Qui è tutto estremamente moderno, sfasato rispetto a quello che ho visto. Sono depresso. Ma perché sono venuto qui? Una brutta idea. A me serve una foresta, non un cimitero isolato dal mare.
Be’, okay, mi passerà. Sono fatto così. Non mi fermo mai a metà. Non pianto mai lì un libro, per quanto noioso. Non esco mai prima della fine da un film o una rappresentazione teatrale o un concerto, anche se è insopportabile. Mangia tutto quello che c’è nel piatto. Sii gentile con gli anziani. Non tirare calci ai cani.
Alzati, per la miseria. “Muoviti.”
Cammino nella sala centrale del museo. Il gigantesco ingrandimento di una prima pagina cattura la mia attenzione: The Long Beach Press-Telegram. Il titolo dice: IL CONGRESSO DICHIARA LA GUERRA.
Signore. Un’intera divisione su questa nave. C’è stato anche Bob. Ha mangiato da un vassoio come quello, con posate come quelle. Ha indossato un lungo cappotto marrone come quello, un berretto di lana marrone, un elmetto con calotta interna come quello, stivali da combattimento come quelli. Ha usato una sacca da viaggio come quella e ha dormito in una brandina come una di queste qui, disposte l’una sopra l’altra a tre a tre. È questo il ricordo memorabile della Queen che avrà mio fratello. Non una danza scozzese o un cane bianco con le orecchie a punta. Solo avere diciannove anni e attraversare l’oceano, diretto a una probabile morte.
Di nuovo quella sensazione. Un nucleo di morte fermo nel mio stomaco.
Altri memorabilia. Tessere del domino. Dadi in un contenitore di cuoio. Una matita a scatto. Libri per le funzioni religiose: protestanti, cattolici, ebrei, mormoni, scientisti cristiani. Uno dei libri mi appare vecchio, familiare. Mi sento come un archeologo che scavi in un tempio. Altre fotografie. Don Ameche e signora. Harpo Marx. Eddie Cantor. Sir Cedric Hardwicke. Robert Montgomery. Bob Hope. Laurel e Hardy. Churchill. Tutti sospesi nel tempo, in un eterno sorriso.
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