Devo uscire.
Di nuovo in macchina, distrutto. È questo che provano i sensitivi entrando in una casa colma di una presenza del passato? L’ho sentita crescere di continuo in me, un’inquietudine contorta che mi risucchiava. Su quel vascello c’è il passato. Dubito che sopravvivrà al passaggio di tutta quella gente. Tra un po’ si sarà dissipato. Ma adesso c’è.
Però può darsi che sia stata solo colpa della mela al forno.
Le due e venti. In viaggio per San Diego. Ascolto musica strana, cacofonica: nessuna linea melodica, nessun contenuto.
Dio, ci siamo un’altra volta. Rallentato da un camper, mi sposto nella corsia accanto, accelero e sorpasso, guizzo qua e là per farmi strada. Ma non capisci proprio, R.C.?
La musica è finita. Non ho capito cosa fosse. Adesso inizia un pezzo di Stravinskij, Ragtime per undici strumenti a fiato. Spengo la radio.
Los Angeles è svanita. Come Long Beach e la Queen. San Diego è una fantasia. La realtà è solo qui: questo pezzo di autostrada che si dispiega davanti a me.
Dove mi fermerò, a San Diego? Ammesso che esista, è ovvio. E che differenza fa? Troverò un posto, uscirò a mangiare; magari un ristorante giapponese. Vedrò un film, leggerò una rivista o farò una passeggiata. Berrò, raccatterò una ragazza, mi fermerò su un molo, lancerò sassi alle barche. Lo deciderò quando sarò arrivato. Niente programmi studiati a tavolino, per favore.
Ehi, su di morale, ragazzo! Sarà una bomba! Hai davanti mesi e mesi!
C’è un ristorante con specialità di mare. Penso che mi metterò a mangiare il pesce spada. Aprirò i miei pasti con zuppiere di creme alla francese da grand gourmet.
San Juan Capistrano è kaput.
Sensazione divina, far sparire intere comunità con un colpo di pensiero.
Le nubi più avanti sono come montagne di neve ammucchiate in forme giganti; castelli che si stagliano contro il cielo azzurro.
Non ho proprio carattere. Ho appena riacceso la radio. Trasmettono Les Préludes di Liszt. La musica del diciannovesimo secolo mi va meglio.
Adesso le nubi sono come fumo. Pare che l’intero mondo stia bruciando.
La sensazione allo stomaco ritorna. Non ha senso, ora che mi sono lasciato la Queen alle spalle.
Deve essere proprio stata la mela al forno.
Il traffico aumenta, mentre entro a San Diego. Devo uscirne.
Non c’è un posto che si chiama “Sea World” in città? Mi pare di sì. Vedrò una balena che salta nel cerchio.
Centro città. Intasamento. Cartelloni pubblicitari che spuntano come funghi velenosi. Le quattro appena passate. Mi sto innervosendo.
Perché sono venuto qui? Adesso mi sembra assurdo. Più di duecento chilometri per cosa?
Domani ripartirò verso est. Mi alzerò presto, mi farò passare il mal di testa, prenderò la strada di Denver.
Cristo, è come essere ancora a Los Angeles! Circondato da automobili che cambiano corsia, da fanalini rossi che lampeggiano, da facce di autisti incazzati.
Ah. Un ponte più avanti. Lo attraverserò. Non mi interessa dove porti. Basta andarmene da qui.
CORONADO dice il cartello.
Guido diritto verso il sole. Mi acceca. Un fulgido disco dorato.
Scogliere in lontananza. Il Pacifico.
Cos’è quell’affare in riva all’acqua? Una struttura grande, strana.
Pago il pedaggio e vado a dare un’occhiata.
Ho appena svoltato a sinistra sulla A Avenue. Sembra vecchia, questa zona. Alla mia destra c’è un cottage all’inglese. Niente traffico, qui. Una strada tranquilla, delimitata da alberi. Forse potrei fermarmi per la notte. Ci sarà un motel, da qualche parte. Vedo una casa antica, una specie di villa del diciannovesimo secolo. È di mattoni; bovindi, comignoli giganteschi.
E lì? Ma guarda quella torre col tetto ad assicelle rosse.
Non riesco a crederci.
Sono arrivato dalla parte sbagliata. Adesso sono fermo in un parcheggio dietro la costruzione. Deve avere sessanta, settant’anni. Un posto enorme. Cinque piani più il pianterreno, mura dipinte di bianco, tetto ad assicelle rosse.
Devo trovare l’ingresso.
Dall’altra parte della strada c’è un motel, se questo non dovesse essere… È un hotel!
Sono nella stanza 527. Guardo da una finestra che dà sull’oceano. Il sole è quasi tramontato; ne resta una fetta color arancione vivo sopra l’orizzonte, a sinistra del profilo scuro di una scogliera. Non c’è nessuno sulla distesa perlacea della spiaggia. Vedo e sento i frangenti, un tuono che va e viene. Sono le quattro e mezzo passate da poco. Questo posto è così rilassante che potrei anche restarci per più di una notte.
Devo dare uno sguardo in giro.
Alla luce del tramonto, il patio appare irreale; tutto è enorme, con sentieri curvi e verdi prati ben tenuti. Il cielo somiglia a uno sfondo da stùdio cinematografico. Forse questa è la Disneyland del sud.
Prima sono arrivato in macchina davanti all’hotel, e un inserviente ha parcheggiato la mia automobile, un ragazzo ha preso i miei bagagli; mi è parso un po’ stupito dal peso della mia seconda valigia. L’ho seguito su per una rampa di scale con la passatoia rossa fino al foyer, ho aggirato un banco in metallo bianco con una fioriera al centro, sono entrato nella hall, ho firmato il registro, e mi hanno accompagnato a questo patio. C’erano uccelli che strillavano come pazzi sugli alberi, ma il fogliame è talmente fitto che non sono nemmeno riuscito a vederli.
Adesso gli alberi sono calmi, il patio è calmo. Lo sto guardando dal balcone del quinto piano; vedo sedie e tavoli con ombrelloni, aiuole fiorite. È un posto di sogno.
Vedo una bandiera americana che sventola alta sopra la torre. Cosa ci sarà lassù? Chissà.
Ho troppa fame per aspettare che servano la cena: alle sei nella saletta Principe di Galles, alle sei e trenta nella sala del Diadema. Sono soltanto le cinque. Se bevo per un’ora, l’appetito mi passerà, e non voglio. Desidero assaporare questo posto.
Sono seduto nella sala del Diadema, quasi deserta, vicino a una delle finestre panoramiche; ho chiesto informazioni, e mi hanno detto che è disponibile un servizio cucina limitato. Qui accanto c’è l’enorme sala della Corona, che viene usata soltanto, presumo, per i banchetti. Fuori, vedo l’area dove sono arrivato in automobile. Sono passati appena quaranta minuti?
La sala è splendida. Alle pareti, pannelli di stoffa rosso e oro; più sopra, pannelli in legno dalle ricche finiture che si incurvano verso un soffitto alto almeno tre o quattro piani. Tavoli con tovaglie bianche, candele accese in candelieri giallo scuro, alti calici di metallo che attendono i commensali. Tutto molto aggraziato.
La cameriera mi ha appena portato la zuppa.
La sto mangiando: superba. Una densa zuppa di fagioli con dadini di prosciutto. Deliziosa. Ho proprio fame. Il che, in prospettiva, può anche essere inutile, ma al momento è un piacere da godere. Questa sala incredibile. Questa ottima zuppa calda.
Mi chiedo se ho soldi a sufficienza per restare qui a scadenza indeterminata. A venticinque dollari al giorno, le mie risorse non possono durare troppo. Immagino abbiano tariffe mensili speciali, ma anche così è probabile che mi ritrovi senza una lira prima di andarmene per sempre.
Da quanto tempo esiste questo hotel? Nella mia stanza c’è un foglio informativo che guarderò più tardi. Comunque, è un posto vecchio. Mentre raggiungevo l’atrio passando per un corridoio che parte dalla saletta Principe di Galles, ho attraversato un vecchio, meraviglioso bar con un bancone degno di un palazzo; domani devo andarci a bere qualcosa. Ho visto anche una galleria con un negozio da barbiere e una gioielleria, ho dato un’occhiata a una sala piena di macchine da gioco, ho intravisto fotografie d’epoca appese alla parete. Studierò anche quelle. Più tardi, quando avrò nutrito il mio corpo affamato.
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