Robert J. Sawyer
Avanti nel tempo
Il filosofo tedesco Immanuel Kant sosteneva che i tre problemi fondamentali della metafisica sono i seguenti: «C’è vita dopo la morte?», «Dio esiste?» e «L’uomo è dotato di libero arbitrio?»
Senza che ci fosse un piano consapevole, ho scritto dei romanzi su ognuno di questi temi. Il mio libro del 1995 The Terminal Experiment (che è stato così fortunato da vincere il premio Nebula) trattava di un ingegnere biomedico che scopre la prova scientifica dell’esistenza dell’anima umana. Il mio ultimo romanzo, appena pubblicato nei paesi di lingua inglese, si intitola Calculating God (Calcolare Dio), e cerca di utilizzare la scienza per rispondere al mistero dell’esistenza di Dio.
Per quanto riguarda il terzo quesito di Kant, questo è alla base di Avanti nel tempo. Non vi è dubbio che nel mondo occidentale la maggior parte delle persone sia assolutamente convinta di essere dotata di libero arbitrio… tuttavia molti di noi, incluso me stesso, conoscono bene l’esperienza di prendersi un impegno qualunque, per esempio quello di dimagrire, solo per trovarsi ad abbandonare la dieta dopo qualche giorno o poche settimane. Nonostante le migliori e consapevoli intenzioni, il nostro destino si rivela diverso da quello che volevamo, come se non avessimo affatto libertà di scelta.
Mi sono sempre interessato alla tragedia greca; l’ Edipo Re di Sofocle è una delle mie opere preferite, e ho avuto il privilegio nel 1977 di trovarmi sul palco del teatro antico di Epidauro a gridare al cielo il nome di Agamennone. Ma la tragedia greca muove proprio dall’assunto opposto: sostiene che i nostri futuri siano predestinati, che il nostro destino sia inevitabile. La mia esperienza con le diete assomiglia, su scala infinitamente minore, al fallimento assoluto di Edipo, nonostante il suo sincero tentativo di opporsi all’avveramento della profezia che gli impone di uccidere il padre e sposare la madre: a dispetto delle nostre migliori intenzioni, ci siamo trovati a fare esattamente ciò che ci eravamo ripromessi di evitare.
Qual è la visione del mondo corretta? Quella dei greci, che credevano che i nostri destini fossero ineluttabili, o quella di chi oggi insiste nell’affermare che siamo padroni dei nostri futuri? Trovo certamente piú attraente l’idea moderna, ma la semplice attrazione non è un motivo abbastanza ragionevole affinché un essere razionale creda che sia vero. Esiste davvero una qualunque valida ragione per accettare la nostra fiducia nel libero arbitrio che sia più valida della credenza greca nella predeterminazione?
Come scrittore di fantascienza, ho iniziato a chiedermi cosa potessero dirci la fisica e la meccanica quantistica riguardo a questa antichissima questione. E con mia grande sorpresa la risposta è notevole, e in buona parte, a partire dal lavoro di Hermann Minkowsky, giunge all’allarmante conclusione che il futuro è davvero già segnato, come il passato.
State per iniziare a leggere il mio romanzo… ma la fine della vicenda è già fissata, stampata in modo immutabile sull’ultima pagina di questo libro. Non sapete ancora come andrà a finire, e speriamo che l’itinerario vi sorprenda lungo il cammino, ma la conclusione è inevitabile. E le nostre vite sono così — un libro che è stato già scritto, con una conclusione tragica o felice già scritta nella pietra? E l’‘adesso’ è semplicemente la pagina che tutte le nostre menti si trovano a contemplare? E cosa succederebbe se di colpo le nostre menti facessero un salto di un centinaio di pagine, per leggersi una scena al di fuori della sequenza, o un capitolo che deve ancora giungere?
Questa è la premessa di Avanti nel tempo e spero che vi divertirete a leggerlo. Ma fatemi un favore: non andate a guardare il finale…
Robert J. Sawyer
Solaria, maggio 2
Per Richard M. Gotlieb
Richard e io ci siamo conosciuti per la prima volta al liceo nel 1975. Già da allora prevedevamo futuri differenti per noi due. Ma una cosa sembrava assolutamente chiara: per quanti anni potessero passare, saremmo sempre rimasti amici. Adesso è trascorso un quarto di secolo, e io sono felice che almeno quella parte si sia rivelata esattamente come l’avevamo prevista.
Colui che prevede le disgrazie
le soffre due volte.
BEILBY PORTEOUS
Primo giorno: martedì 21 aprile 2009
Una frattura nello spaziotempo…
Il centro di controllo del Grande collisore per Adroni (Large Hadron Collider, LHC) del CERN era nuovo: era stato autorizzato nel 2004 e completato nel 2006. Comprendeva un cortile centrale, inevitabilmente chiamato ‘il nucleo’. Ogni ufficio aveva una finestra che si affacciava o verso il nucleo o verso l’esterno, sul vasto campus del CERN. Il quadrilatero che circondava il nucleo aveva due piani, ma gli ascensori principali facevano quattro fermate: una a ciascuno dei due piani, una al piano terra, in cui si trovavano le caldaie e i magazzini, e la quarta al livello meno novantanove metri, da dove si raggiungeva una delle stazioni della monorotaia utilizzata per percorrere la galleria circolare di ventisette chilometri del collisore. La galleria stessa correva sotto terreni agricoli, alla periferia dell’aeroporto di Ginevra, e ai piedi delle montagne del Giura.
La parete meridionale del corridoio principale del centro di controllo era divisa in diciannove lunghe sezioni, ciascuna delle quali era stata decorata con un mosaico realizzato da un artista di uno dei paesi membri del CERN. Quello greco rappresentava Democrito e l’origine della teoria atomica; quello tedesco illustrava la vita di Einstein; quello danese, la vita di Niels Bohr. Non tutti i mosaici, tuttavia, avevano la fisica come tema: quello francese riproduceva il profilo di Parigi, mentre quello italiano mostrava una vigna, con migliaia di ametiste levigate che rappresentavano i singoli grappoli.
La sala di controllo vera e propria del Grande collisore per Adroni era un quadrato perfetto con ampie porte scorrevoli posizionate nel centro esatto di ciascun lato. Era alta due piani, e la metà superiore aveva le pareti in vetro, in modo che i gruppi di visitatori potessero osservare l’attività dei tecnici; il CERN organizzava delle visite guidate per il pubblico della durata di tre ore nei giorni di lunedì e sabato, alle 9 e alle 14. Piú in basso, al di sopra delle finestre, appese contro le pareti erano disposte le bandiere dei diciannove stati membri, cinque per parete; il ventesimo riquadro era occupato dalla bandiera blu e oro dell’Unione europea.
La sala di controllo conteneva decine di consolle. Una era destinata alla gestione degli iniettori delle particelle e controllava l’inizio degli esperimenti. Quella accanto aveva la superficie angolata e dieci monitor incassati che mostravano i risultati trasmessi dai rivelatori ALICE e CMS, gli enormi sistemi sotterranei che avrebbero registrato e tentato di identificare le particelle prodotte dagli esperimenti dell’LHC. I monitor su una terza consolle mostravano sezioni della galleria sotterranea del collisore che curvava dolcemente, e la putrella della monorotaia appesa al soffitto.
Lloyd Simcoe, un ricercatore canadese, era seduto alla consolle degli iniettori. Aveva quarantacinque anni, era alto e sbarbato di fresco. Aveva gli occhi azzurri e i capelli tagliati alla militare di un colore marrone così scuro da poterli tranquillamente definire neri… a parte sulle tempie, che erano almeno per metà già ingrigite.
I fisici che studiavano le particelle non erano famosi per la loro eleganza nel vestire, e fino a poco tempo prima Lloyd non aveva fatto eccezione. Ma qualche mese prima aveva deciso di donare il suo intero guardaroba alla sede ginevrina dell’Esercito della salvezza, e di lasciare che la sua fidanzata scegliesse per lui dei capi completamente nuovi. Per dire la verità quegli abiti erano un po’ troppo vistosi per i suoi gusti, ma doveva riconoscere di non avere mai avuto un aspetto così distinto. Oggi indossava una camicia beige, una giacca color corallo, pantaloni marroni con sacche esterne al posto delle tasche e, in ossequio a una moda piú tradizionale, un paio di scarpe nere italiane di pelle. Lloyd aveva anche fatto propri un paio di status symbol universali che, guarda caso, appartenevano alla tradizione locale: una penna stilografica Mont Blanc, che teneva infilata nel taschino della giacca, e un buon orologio svizzero analogico.
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