Al diavolo, me ne sto qui a parlare della mia faccia. Perché abbandonarmi al giochetto della terza persona? Sono io, gente. Richard Collier. Un uomo molto bello. Posso parlarne finché ne ho voglia. Non c’è nessuno a origliare dal buco della serratura. Eccomi qui, mondo. Tatan-tatan! E a cosa è mai servita quella faccia al ragazzo che se la porta appresso? Lo salverà? Quella faccia impugnerà una spada e farà a pezzetti l’infido tumore? Ma nemmeno per idea. Per cui, in definitiva, quella faccia è inutile: non può trattenere il suo proprietario in questo mondo un giorno più del previsto. Be’, per i vermi sarà un bel picnic… Gesù, che cosa schifosa da dire!
Che cosa stupida, idiota.
Quasi mezzanotte.
Sdraiato al buio, ascolto la risacca: colpi di cannoni lontani.
Sono le ore più difficili.
Questo posto mi piace, ma è chiaro che non mi fermerò più di qualche giorno, Che senso avrebbe?
Fra un po’ di giorni, una mattina mi alzerò e partirò per Denver. In direzione est.
O magari est-ovest.
Lascia perdere le battute da sbronzo, Collier.
Le quattro e ventisette del mattino. Mi sono appena alzato per bere un bicchiere d’acqua. Non mi piace affatto quel sapore di cloro. Vorrei avere un depuratore, come a casa.
A casa?
Sette del mattino. Ho tentato di alzarmi. Sono sceso dal letto, mi sono vestito, mi sono lavato la faccia e i denti, ho preso le vitamine, eccetera. Poi, subito dopo, di nuovo a letto. L’emicrania è troppo forte. Non riesco ad affrontarla.
Che peccato. Una giornata splendida, almeno dal poco che posso vedere a occhi socchiusi. Cielo e oceano azzurri. Una distesa deserta di spiaggia sotto il sole. Aria fresca, frizzante.
Non riesco più a parlare.
Otto e cinquantasei. Il patio immobile nel sole del mattino. Mi sporgo dalla ringhiera e guardo i prati verdi, così verdi, le siepi tosate alla perfezione, le fioriere quadrate al centro, i lampioni su ogni lato. Tavolini, sedie bianche.
Oltre il tetto rosso dell’hotel, vedo l’oceano.
Le nove. Colazione nella sala del Diadema. Caffè nero e un pezzetto di pane tostato. Altre dodici persone con me.
Troppa luce, qui. La sala ondeggia davanti ai miei occhi. La cameriera entra ed esce dalla mia visuale partendo e tornando al bagliore color giallo limone che vedo. Non so perché sono venuto qui. Potevo chiamare il servizio in camera.
Ho un’aria ambigua mentre borbotto nel mio microfono.
Più tardi. Non so che ora sia, non me ne importa. Sono di nuovo sdraiato sulla schiena. Non so come sono arrivato qui. Forse mi sono addormentato. O sono svenuto.
Wow! Quegli aerei scendono così bassi. Ne ho appena intravisto uno. Cosa fa? Atterra sulla spiaggia?
Deve esserci un aeroporto, nei paraggi.
Le dieci e trentasette del mattino. Coricato a letto. Guardo il “San Diego Union”. Non ricordo di averlo comperato. Deve essere successo nel mio periodo di nebbia. È una fortuna essere riuscito a tornare in camera.
Questo giornale ha centoquattro anni di vita. Un bel po’ di tempo.
Avevo deciso di non tenermi aggiornato sui fatti del mondo, e invece lo sto facendo. Pechino ci sta già addosso. Il Mariner Nove individua un punto caldo su Marte. L’ultimo disegno di legge per la protezione costiera silurato a Sacramento.
Lascia perdere, Collier. Puoi anche cavartela senza le notizie del giorno.
Domani, luna nuova. Non ti occorre sapere altro.
Faccio una passeggiata. Respiro l’aria fresca, pulita dell’oceano. L’odore è meraviglioso. Cammino sotto la torre. Ho scoperto che lì, a pianterreno, c’è una sala da ballo. Alla mia sinistra, una piscina olimpionica: acqua azzurra, chiara. Vedo di fronte a me sdraio ripiegate; un tendone aperto, tavolini da ping pong. Tutto deserto.
Grande giornata. Sole caldo, cielo azzurro, nubi soffici.
Cammino sui bordi del campo da tennis. Un quartetto di donne gioca un doppio; vedo corti gonnellini bianchi e carnagioni scure come cuoio. Più avanti c’è la spiaggia. Cento metri fino alla schiuma bianca, ribollente.
Adesso guardo l’hotel. Una struttura massiccia, con la torre come un gigantesco minareto: otto lati, e su ogni lato due file di piccoli bovindi. In cima, quella che sembra una torretta d’osservazione. Chissà se i clienti possono salirci.
Sto tornando indietro. Qui c’è un edificio moderno, un grattacielo; un condominio residenziale o qualcosa del genere. Fa uno strano effetto, in contrasto all’hotel.
Guardo una vecchia torre di mattoni, dall’altra parte. Quella che un tempo doveva essere la rimessa per le barche dell’hotel, adesso trasformata in ristorante. Quelli che sembrano binari ferroviari fuori uso. Immagino che, a quei tempi, qui arrivassero treni che portavano i clienti.
Sono seduto nel vecchio stabilimento balneare. Si chiama sala Casinò. Il locale è chiuso; molto tranquillo. Il bancone deve essere lungo quindici metri, bellissimo, splendidamente rifinito. A un’estremità c’è quello che pare un tempietto, e all’interno ia statuina di un moro che regge una lampada.
Quanti piedi hanno consumato quel parapetto d’ottone?
Poco fa, guardavo le fotografie delle star del cinema che sono state qui. June Haver. Robert Stack. Kirk Douglas. Eva Marie Saint. Ronald Reagan. Donna Reed. E si arriva fino alle bellezze della compagnia Paola Negri, a Mary Pickford, a Marie Callahan delle Ziegfeld Follies. Quanto torna indietro nel tempo questo luogo.
Voglio annotare il momento esatto: le undici e ventisei del mattino.
Tornando attraverso il patio, diretto alla mia stanza, ho visto il cartello che segnala il salone della Storia del seminterrato.
Posto affascinante. Fotografie come nella galleria. Una camera da letto di fine Ottocento o dei primi del Novecento. Vetrine con oggetti della storia dell’hotel: un piatto, un menù, un portatovagliolo, un ferro da stiro, un telefono, un registro dell’hotel.
E in una delle vetrine c’è il programma di una rappresentazione tenuta nel teatro dell’hotel (non so dove sia) il 20 novembre 1896: Il piccolo ministro di J.M. Barrie, con un’attrice che si chiamava Elise McKenna. Vicino al programma c’è una foto del suo viso: il volto più splendidamente delizioso che io abbia visto in vita mia.
Mi sono innamorato di lei.
Tipico del sottoscritto. Trentasei anni, una cotta qui e una cotta là, una serie casuale di storie che scimmiottavano l’amore. Ma niente di vero, niente che durasse.
Adesso, malato allo stadio terminale, riesco finalmente a perdere il cuore per una donna che deve essere morta almeno da vent’anni.
Bell’impresa, Collier.
Quel viso mi perseguita.
Sono tornato a guardarlo. Mi sono fermato davanti alla vetrina per tanto tempo che un uomo che entrava e usciva periodicamente dalla porta di un ufficio dell’hotel si è messo a fissarmi. Aveva l’aria di chiedersi se avessi piantato radici lì.
Elise McKenna. Nome delizioso. Volto squisito.
Come mi sarebbe piaciuto sedere a teatro (si trovava nella sala da ballo, l’ho scoperto da una foto del museo) e guardarla recitare. Deve essere stata superba.
E come posso saperlo? Forse faceva schifo. No, non ci credo.
Mi pare di avere già sentito il suo nome. Non ha interpretato Peter Pan ? Se è chi penso io, era un’attrice splendida.
Di certo era bella.
No, c’è qualcosa in più della bellezza. È l’espressione del suo viso che mi perseguita e mi conquista. Quell’espressione dolce, onesta. Vorrei poterla avere conosciuta.
Sto sdraiato a fissare il soffitto come un ragazzino malato d’amore. Ho trovato la donna dei miei sogni.
Descrizione calzante. Dove potrebbe esistere, se non nei miei sogni?
Be’, perché no? La donna dei miei sogni è sempre stata irraggiungibile. Che differenza possono fare tre miserabili quarti di secolo?
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