Richard Matheson - Appuntamento nel tempo
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- Название:Appuntamento nel tempo
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- Издательство:Mondadori
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- Год:1997
- Город:Milano
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Adesso fa troppo buio per riuscire a vedere molto dell’esterno. Qui davanti ci sono alberi invasi dall’ombra, qualche automobile, e più oltre, in distanza, le luci multicolori di San Diego. Nella finestra si riflette l’enorme lampadario, una corona di luci sospesa nella sera. Stare qui non è come trovarsi sulla logora, impotente Queen Mary. Questa è la Mary ancora regina del mare.
C’è una sola cosa che non va: la musica. È inadatta. Dovrebbe essere più dolce. Un quartetto d’archi che suona Lehar.
Sono seduto su una poltrona gigantesca, nel mezzanino sopra l’atrio. Davanti a me c’è un enorme lampadario con file di lampadine dietro paralumi rossi e collane di cristallo che pendono dal fondo. Il soffitto in alto è massiccio, con decorazioni complesse; i pannelli scuri sono tirati a lucido. Vedo un’imponente colonna a pannelli, lo scalone centrale, e la struttura a graticci dorati della tromba dell’ascensore. Sono passato da un’altra scala; il silenzio era così completo che me lo sentivo nella carne.
La poltrona è un universo a sé. Lo schienale arriva molto sopra la mia testa, con due putti paffuti a fianco del ghirigoro ornamentale in alto. I due braccioli terminano in draghi alati, e le forme serpentine, squamose, scendono fino al sedile. Sul retro, dove i braccioli si uniscono, due figure: una un Bacco giovanile, l’altra un Pan con le zampe pelose e lo sguardo fisso, intento a suonare il suo flauto.
Chi si è seduto su questa poltrona prima di me? Quante persone hanno superato con lo sguardo la ringhiera per scrutare, nell’atrio, uomini e donne seduti, o in piedi; la gente che chiacchierava, che entrava e usciva? Negli anni Trenta, e Venti, e Dieci.
Anche prima dell’inizio del secolo?
Siedo nel salone vittoriano, con un drink in mano, e fisso una vetrata dipinta. Sala deliziosa. Ricche fodere rosse nei separé; direi velluto. Colonne a pannelli di legno, soffitto a riquadri di legno, un lampadario con pendenti di cristallo.
Nove e venti di sera. Ho fatto la doccia. Con una stanchezza mortale nelle gambe, mi sono coricato sul letto e leggo il foglio informativo. Questo posto è stato costruito nel 1887. Incredibile. E sapevo che aveva qualcosa di vagamente familiare. Purtroppo, non si trattava di “déjà-vu.” Billy Wilder lo ha usato per girare A qualcuno piace caldo.
Cito dal foglio:
“Struttura simile a quella di un castello.”
“L’ultimo degli stravaganti hotel in riva al mare.”
“Un monumento al passato.”
“Torrette, alte cupole, colonne in legno scolpito a mano e appariscenti decorazioni vittoriane.”
Sto ascoltando un suono che non ho più udito dalla mia infanzia: l’ansito ritmico dei termosifoni.
Un silenzio stupefacente nei corridoi. Come se il tempo stesso vi si fosse raccolto, fino a riempire l’aria.
Mi chiedo se riempia anche questa stanza. La mia camera contiene qualcosa che appartiene al passato? Il tappeto a chiazze oro-marrone-giallo? Ne dubito. Il bagno? Probabilmente tanti anni fa il bagno non esisteva nemmeno. Le sedie di vimini? Può darsi. Di sicuro non i letti o i comodini o le lampade; e di certo non il telefono. Quelle stampe alla parete? Improbabile. Le tende o le persiane alla veneziana? No. Probabilmente è stato sostituito anche il vetro della finestra. Il cassettone o lo specchio appeso sopra? Non credo. Il cestino per la carta straccia? E come no. E il televisore? Oh, già, già.
Qui dentro c’è ben poco del passato. Che peccato.
Mi chiamo Richard Collier. Ho trentasei anni, e di professione scrivo per la televisione. Sono alto un metro e ottantasette e peso ottantaquattro chili. Mi hanno detto che somiglio a Newman; forse alludevano al cardinale. Sono nato a Brooklvn il 20 febbraio 1935, mi hanno quasi spedito in Corea ma poi la guerra è finita, mi sono laureato all’Università del Missouri nel 1957, in giornalismo. Dopo la laurea ho trovato un posto alla ABC di New York, ho cominciato a vendere sceneggiature nel 1958, mi sono trasferito a Los Angeles nel 1960. Mio fratello ha portato la sua tipografia a L.A. nel 1965, e lo stesso anno io sono andato a vivere nel cottage per gli ospiti dietro casa sua. Sono partito da lì stamattina perché morirò nell’arco dei prossimi quattro o sei mesi, e ho pensato di viaggiare e scrivere un libro su questa mia esperienza.
Quanta verbosità per costringermi a dire queste parole. Okay, le ho dette. Ho un tumore al lobo temporale; non si può operare. Ho sempre creduto che le emicranie del mattino fossero dovute alla tensione. Alla fine sono andato dal dottor Crosswell; Bob ha insistito, mi ci ha portato lui stesso. Quel duro di Bob che dirige la sua azienda con la mano di ferro. Ha pianto come un bambino quando il dottor Crosswell ci ha informati. Io ho il tumore, e a piangere era Bob. Che uomo adorabile.
Tutto questo, meno di due settimane fa. Sino ad allora pensavo di vivere a lungo. Papà ha reso l’anima a sessantadue anni solo perché beveva troppo. La mamma a settantatré, sana e attiva. Credevo di avere un sacco di tempo per sposarmi, farmi una famiglia; non mi sono mai lasciato prendere dal panico, anche se non ho mai incontrato la Donna Della Mia Vita. Adesso è finita. I raggi X, i prelievi di tessuti e tutto il resto lo confermano. Collier è kaput.
Potevo restare con Bob e Mary. Fare la terapia dei raggi X. Vivere qualche mese in più. No. Mi è bastato vedere l’occhiata che loro due si sono scambiati; l’occhiata addolorata, impotente e nervosa che qualcuno lancia sempre in presenza di chi è destinato a morire. Ho capito che dovevo tagliare la corda. Non potevo restare lì a vedere quell’occhiata giorno dopo giorno.
Sto scrivendo questa parte del libro, anziché dettarla al registratore. Comunque, il fatto di dettare tutte le sceneggiature era una cattiva abitudine. Perdere la sensazione di mettere le parole sulla carta è negativo, per uno scrittore.
Adesso non posso dettare perché sto ascoltando in cuffia la Decima di Mahler: Ormandy, la Philadelphia. È un po’ difficile dettare, se non senti nemmeno il suono della tua voce.
Cook ha fatto un lavoro sorprendente, nell’orchestrare gli abbozzi incompiuti. Sembra proprio Mahler. Forse un po’ meno ricco del solito, ma indiscutibilmente lui.
So perché amo questa musica; l’ho appena capito. Perché lui c’è “dentro”. Il passato infesta questo hotel, e Mahler infesta la propria opera. In questo momento, lui è nella mia testa. “Continua a vivere nel suo lavoro” è un luogo comune banale, raramente vero. Nel caso di Mahler, è la pura e semplice verità. Il suo spirito risiede nella sua musica.
Sono all’ultimo movimento. Inevitabilmente, la sensazione di rilassamento agli angoli degli occhi, il deglutire, il gonfiarsi delle emozioni nel mio petto.
La musica ha mai saputo esprimere in maniera più lacerante l’addio alla vita?
Lasciatemi morire con Mahler nella testa.
Sto guardando una faccia nello specchio. Non la mia faccia: Paul Newman, attorno al 1960. L’ho fissata per tanto tempo che mi sento obiettivo. A volte succede: guardi la tua immagine riflessa nello specchio, e a un certo punto, zac!, quella che ti guarda è la faccia di un estraneo. Certe volte, una faccia spaventosa, talmente è estranea.
L’unica cosa che mi riporti alla realtà è il fatto che vedo muoversi le labbra di Paul Newman, e stanno dicendo le parole che io mi sento dire. Quindi, quella faccia deve essere mia, anche se mi pare che non abbia nessun rapporto con me.
Il ragazzo che possedeva quella faccia era bello; glielo ripetevano di continuo, se lo sentiva sempre dire. E a cosa gli è servito? Gli adulti, persino gli estranei, gli sorridevano, e a volte gli carezzavano i capelli di un biondo molto chiaro e fissavano i suoi tratti angelici. E a cosa gli è servito? Anche le ragazze lo fissavano. Di sbieco, in genere. A volte diritto negli occhi. Il ragazzino arrossiva molto spesso. E sanguinava: i bulli adoravano prendere a pugni quella faccia. Purtroppo, il ragazzo aveva grandi capacità di sopportazione. Solo quando lo chiudevano in angolo e cominciavano a tempestarlo di botte anche “lui” perdeva le staffe e si metteva a rispondere ai colpi. Il povero ragazzo non ha mai chiesto quella faccia. Non ha mai tentato di specularci sopra. Per lui, è stato un piacere crescere, perché da una certa età in poi, i bulli si affidano a tattiche più sottili.
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