Fritz Leiber - Ombre del male

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Ombre del male: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo romanzo di uno dei «padri» della fantascienza, Fritz Leiber, assume oggi una modernità sconcertante, perché ha saputo esprimere nel modo più netto i dubbi e le perplessità dell’uomo contemporaneo di fronte a delle realtà che paiono inspiegabili. La scienza «ufficiale» riesce a giustificare compiutamente tutti i fatti che vediamo accadere intorno a noi? Forse molte risposte dovrebbero essere cercate in una conoscenza più antica e dimenticata, che poneva come chiave di volta dell’universo i poteri indefiniti della mente umana. Metà della razza umana, si chiede Fritz Leiber, pratica ancora, attivamente, le arti arcane? Forse tutte le donne sono streghe? Un uomo, un uomo moderno, che è uno studioso, è costretto a convincersi di sì: la sua stessa moglie ne è la prova. E non basta. Altre tre donne, mogli di suoi colleghi, fanno uso delle conoscenze scientifiche dei mariti, dando alla magia un impulso moderno, per assicurarsi successo e vantaggi materiali. Contendono l’una con l’altra. Esperimentano la loro forza. Si distruggono a vicenda invocando antiche forze del male. E quando egli costringe la moglie ad astenersi da tali pratiche, la rende inerme di fronte alle male arti delle altre.

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«Penso che sia proprio così» disse Norman «e questo aiuta a capire perché la magia in sé è sempre stata discreditata come scienza, ed è questo appunto che io volevo dimostrare.

“Supponiamo che le formule fondamentali della fisica, come ad esempio le tre leggi del moto di Newton, siano mutate varie volte nel corso di queste ultime migliaia di anni. La scoperta delle altre leggi fisiche, in qualsiasi momento, sarebbe stata molto difficile. Gli stessi esperimenti, condotti in epoche diverse, darebbero risultati diversi. Questo accade invece con la magia e spiega perché essa venga periodicamente discreditata e ripugni a una mente razionale. Mi ricorda un po’ ciò che diceva il vecchio Carr a proposito della distribuzione delle carte al bridge. Rimescolando varie volte una moltitudine di fattori cosmici, le leggi della magia si modificano. Un occhio attento riesce a scoprire i mutamenti, ma sono necessari esperimenti continui, del tipo “sbaglia e impara”, al fine di mantenere l’efficacia delle formule magiche, soprattutto per il fatto che le formule fondamentali e le formule generali non sono mai state scoperte.

“Prendiamo un esempio concreto, la formula che io ho usato doménica notte. Comporta vari ingredienti che denunciano una recente revisione. Per esempio nella formula originale, non modificata, cosa si usava al posto di una puntina di grammofono?»

«Un fischietto in legno di salice, di determinata forma, nel quale si era fischiato una volta sola.»

«E il platino e l’iridio?»

«La formula originale diceva argento. Ma un metallo più pesante conviene di più. Il piombo, però, si era dimostrato inefficace. Lo avevo provato una volta. Forse era troppo dissimile dall’argento per altri versi.»

«Appunto. Tentativi empirici, sbagliare e riprendere da capo. Inoltre, in mancanza di esauriente indagine, non possiamo essere certi che tutti gli ingredienti di una formula magica siano indispensabili alla sua riuscita. Un paragone fra le formule usate in paesi diversi in epoche diverse sarebbe molto utile. Indicherebbe quali ingredienti sono comuni a tutte le formule, e quindi presumibilmente indispensabili e quali sono quelli non essenziali.»

Bussarono alla porta. Norman disse qualcosa, e la figura seduta accanto a lui abbassò il velo sul viso e si volse verso la finestra come se contemplasse i prati che sfilavano davanti. Solo allora egli aprì la porta.

Era l’ora di colazione, che gli era parsa tanto lunga a venire, come lo era stata la prima colazione. E l’inserviente era diverso ora. Un uomo color caffè anziché il nero d’ebano della prima volta. Evidentemente il cameriere di prima, che aveva mostrato evidenti segni di nervosità a ogni andirivieni, aveva deciso di lasciare che fosse un altro a prendersi la mancia finale.

Con impazienza mista a curiosità, Norman attese le reazioni del nuovo arrivato. Era in grado di indovinarle quasi tutte: prima un rapido sguardo alla persona seduta vicino a Norman (avrà pensato che lui e Tansy fossero i personaggi più misteriosi di tutto il treno). Poi un lungo sguardo di fianco mentre allestiva il tavolo pieghevole per la colazione, poi uno sguardo sorpreso, gli occhi che si spalancavano. Avvertiva quasi il brivido che percorreva quella pelle colore del caffè. E, dopo, solo sguardi involontari e una nervosità crescente, che si manifestava con una certa goffaggine, nel maneggiare le posate, i bicchieri. Poi un largo sorriso e una veloce uscita dallo scompartimento.

Una volta solamente Norman intervenne e fu per raddrizzare i coltelli e le forchette e piazzarli ad angolo retto nella loro usuale posizione.

Il pasto fu semplice, quasi frugale. Norman non guardava di fronte a sé mentre mangiava. Vi era qualcosa di più di una voracità animalesca in quel cibarsi metodico. Dopo il pasto tornò a sedersi comodamente e stava per accendere una sigaretta quando la figura accanto a lui disse:

«Non dimentichi nulla?» Le parole erano pronunciate senza alcuna modulazione.

Si alzò e mise tutti gli avanzi in una piccola scatola di cartone. Li coprì col tovagliolo di carta che aveva usato per ripulire tutti i piatti e mise la scatola nella valigia, accanto alla busta che conteneva i ritagli d’unghia che si era tagliato al mattino. La vista dei piatti scrupolosamente ripuliti dopo la prima colazione aveva contribuito a turbare il primo cameriere, ma Norman aveva deciso di aderire inflessibilmente a tutti i tabù espressi da Tansy.

E così aveva raccolto i resti del cibo, aveva badato a che nessun coltello né altro oggetto tagliente fosse rivolto contro di lui, o contro la sua compagna, e che dormendo avessero il capo rivolto verso la locomotiva, nella direzione stessa del loro viaggio, e aveva ubbidito ad altre regole minori. I pasti in privato permettevano di soddisfare un altro tabù, ma per questo c’era più di un motivo.

Diede un’occhiata all’orologio. Fra mezz’ora sarebbero arrivati a Hempnell. Non si rendeva conto di essere così vicino, C’era un leggerissimo senso di resistenza quasi fisica nell’avanzare verso quella regione, come se l’aria fosse diventata più densa. E la sua mente era alle prese con un gran numero di problemi non ancora vagliati.

Con le spalle voltate di proposito alla sua compagna, disse:

«Secondo il mito, le anime possono essere imprigionate in diversi modi: in scatole, nodi, animali, pietre… Hai qualche idea in proposito?»

Come aveva temuto, questa domanda gli portò la solita risposta. Le parole erano pronunciate con la stessa ostinazione monotona della prima volta in cui le aveva udite.

«Voglio la mia anima.»

Strinse la mani incrociate sul grembo. Per questo aveva finora evitato la domanda. Ma doveva cercare di saperne di più, se possibile.

«Ma dove, esattamente, la dobbiamo cercare?»

«Io voglio la mia anima.»

«Sì…» Gli era difficile controllare la propria voce. «Ma dove, con precisione, può essere nascosta? Se lo sapessi sarebbe più facile.»

Dopo una lunga pausa, Tansy gli disse imitando come un robot i suoi modi professorali.

«L’habitat dell’anima è il cervello umano. Se è libero, cerca subito di integratisi. Si dice che anima e corpo siano creature separate, che convivono per simbiosi, una simbiosi così stretta, intima, che normalmente le fa apparire come un’unica cosa. Questo contatto sembra essersi fatto sempre più stretto col passare dei secoli. In effetti, quando muore il corpo ch’essa occupava, l’anima generalmente non riesce ad evadere e sembra morire con esso. Ma a causa di interventi sovrannaturali, l’anima talvolta si separa dal corpo che la ospita. E allora se non può ritornare nel proprio corpo, viene irresistibilmente attratta da un altro, sia che questo corpo possegga già un’anima o no. E così l’anima prigioniera è generalmente racchiusa nel cervello di chi l’ha catturata ed è obbligata a sentire, a seguire, nella più totale intimità, l’agire di quell’anima. In questo risiede forse il suo tormento peggiore.»

Il sudore colava a gocce sulla fronte di Norman.

La sua voce non tremò ma era anormalmente forte e sibilante quando chiese: «Com’è Evelyn Sawtelle?»

Nel dare la risposta, Tansy pareva leggesse il riassunto di una scheda informativa politica.

«È dominata da una bramosia di prestigio sociale. Impiega quasi tutto il tempo in falliti tentativi di snobismo. Nutre idee romantiche sul proprio conto, ma poiché queste idee sono troppo ambiziose per potersi realizzare, diventa moralista e puritana, e sfoggia severissime regole di condotta. È convinta di essere defraudata di qualcosa per via di quel marito che ha, e teme continuamente di vedergli perdere quel terreno che lei è riuscita faticosamente e fargli guadagnare. Quella sua personale mancanza di sicurezza le fa commettere azioni malefiche e inspiegabilmente crudeli. In questo momento è attanagliata dalla paura, ed è sempre in guardia. Per questa ragione aveva già pronti i suoi sortilegi quando ha ricevuto la telefonata.»

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