Fritz Leiber - Nostra Signora delle Tenebre

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Nostra Signora delle Tenebre: краткое содержание, описание и аннотация

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Nostra Signora delle Tenebre Per Franz Westen, vedovo, scrittore di racconti del soprannaturale per la televisione, l’incubo comincia all’improvviso, quando, una notte, si affaccia alla finestra del suo appartamento per scrutare con il binocolo le luci della città ed è testimone di una scena inquietante: là, sulla cima di Corona Heights, la solitaria ed erta collinetta che si leva proprio nel cuore di San Francisco, c’è una strana figura dal colorito brunastro che si agita e si muove in maniera sinistra, come se fosse impegnata in qualche misterioso rituale o danza magica. Ha così inizio una terribile persecuzione, cui Franz tenterà invano di sottrarsi e che forse è collegata in qualche modo con un vecchio volume affascinante e sibillino, pieno di misteriose citazioni e di strani discorsi sulle moderne megalopoli e sulle arcane entità che le infestano, i “paramentali”, esseri d’origine azoica “più infidi dei ragni e delle donnole”.

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Fritz Leiber

Nostra Signora delle Tenebre

Ma la terza Sorella, che è anche la più giovane… Silenzio! Abbassa la voce, quando parliamo di lei !… Il suo regno non è molto vasto, altrimenti nessuna creatura materiale potrebbe vivere; ma entro i confini di quel regno tutto il potere è suo. La sua testa, cinta di una corona di torri come quella di Cibele, s’innalza quasi al di là della portata dello sguardo. Non abbassa mai la testa, e i suoi occhi, dato che stanno così in alto, sembrerebbero dover sparire nella distanza. Invece, essendo quello che sono, non possono rimanere nascosti; dietro il triplice velo nero da lei portato, la luce abbagliante di un’ardente infelicità, che non cessa né col mattutino né col vespro, né col sole alto né quando la notte è fonda, né all’alba né al tramonto, si lascia scorgere fin da terra. Lei è l’avversaria di Dio. È anche la madre di ogni follia, l’istigatrice dei suicidi. Le radici del suo potere sono profonde; ma è molto piccola la nazione da lei dominata. Infatti può accostarsi soltanto a coloro la cui natura profonda sia stata portata alla luce da rivolgimenti centrali; in cui il cuore trema e il cervello vacilla sotto la congiura delle tempeste esterne e di quelle interiori. Madonna si muove con passi incerti, rapidi o lenti, ma pur sempre con una grazia tragica. Nostra Signora dei Sospiri scivola timidamente, segretamente. Ma la Sorella più giovane avanza con movimenti imprevedibili, scattando con balzi da tigre. Non porta con sé alcuna chiave; sebbene scenda assai raramente tra gli uomini, sfonda tutte le porte che le è consentito di oltrepassare. E il suo nome è Mater Tenebrarum: Nostra Signora delle Tenebre.

Thomas De Quincey, “Levana e le Nostre Tre Signore del Dolore”, Suspiria de profundis

1

La collina isolata ed erta che aveva nome Corona Heights era nera come il carbone e assolutamente silenziosa, come il cuore dell’ignoto. Rivolta con decisione verso il basso e verso nordest, in direzione delle luci forti e nervose del centro di San Francisco, sembrava un grosso carnivoro notturno, intento a sorvegliare il suo territorio alla paziente ricerca di una preda.

La falce di luna crescente era tramontata ormai da tempo; le stelle, nell’alto del cielo nero come un velluto, tagliavano ancora come diamanti. A ovest si era formato un basso strato di nebbia. Ma a est, dietro il centro commerciale della città e la baia coperta di un velo di vapori, già il nastro sottile, spettrale, della prima luce dell’alba coronava la vetta delle collinette dietro Berkeley, Oakland e Alameda, e l’ancor più lontana cima del demonio, Mount Diablo.

Tutt’intorno a Corona Heights, le luci delle strade e delle case di San Francisco, che ormai, alla fine della notte, sembravano essersi affievolite, la circondavano con apprensione, come se fosse veramente un animale pericoloso. Ma sulla collina stessa non si scorgeva neppure una luce. Un osservatore, dal basso, non sarebbe riuscito a distinguere il suo profilo frastagliato e i massi di forma bizzarra che ne coronavano la vetta (evitata perfino dai gabbiani) e che qua e là affioravano dai suoi fianchi spogli e accidentati, i quali, anche se talvolta toccati dalla nebbia, ormai da mesi non conoscevano lo scroscio della pioggia.

Un giorno o l’altro, forse la collina era destinata a essere spianata dalle ruspe, non appena l’avidità degli uomini fosse divenuta ancor più grande e il timore della natura primordiale ancor più piccolo, ma per il momento era ancora in grado di incutere un terrore panico.

Troppo selvaggia e accidentata per farne un parco, era qualificata erroneamente come terreno di giochi. E in effetti c’erano qualche campo da tennis e qualche piccolo prato, alcuni bassi edifici e diversi fitti boschetti di pini attorno alla sua base, ma, finiti questi, al di sopra la collina si innalzava scabra, spoglia e sprezzantemente altera.

E adesso sembrava che qualcosa si muovesse, nella massa buia di Corona Heights. Difficile capire che cosa fosse. Forse qualcuno dei cani selvatici della città, ormai privi di casa da generazioni, ma ancora capaci di passare per cani domestici. (In una grande città, se vedete un cane che va per i fatti suoi, senza abbaiare a nessuno, senza seguire la gente, in pratica, comportandosi come un buon cittadino con del lavoro da fare, e con poco tempo da perdere, e se quel cane non ha né la medaglietta né il collare, potete starne certi: non ha un padrone che si disinteressa di lui, ma è selvatico… e perfettamente adattato.) Forse era un animale ancor più selvatico e segreto, che non si era mai assoggettato al dominio dell’uomo, ma che viveva in mezzo alla gente quasi inosservato. O forse, cosa possibile, un uomo (o una donna) talmente sprofondato nella barbarie o nella psicosi da non avere bisogno di luce. O forse era solo il vento.

Pian piano, il nastro di luce a oriente si fece rosso cupo, il cielo si illuminò da est a ovest, le stelle sparirono e Corona Heights cominciò a mostrare la sua superficie accidentata, arida, pallida e rossiccia.

Eppure, non ci si poteva togliere dalla mente l’impressione che la collina fosse stata colta da una sorta d’irrequietezza, e che finalmente avesse scelto la sua preda.

2

Due ore più tardi, Franz Westen guardava dalla finestra aperta del proprio appartamento la torre della TV, che, colorata di bianco e di rosso vivo, illuminata dal sole del mattino, si alzava al di sopra della nebbia lattiginosa che copriva ancora il Monte Sutro e Twin Peaks, a cinque chilometri di distanza, e che faceva da sfondo alla sagoma gibbosa, color ocra chiaro, di Corona Heights. La torre della TV (la torre Eiffel di San Francisco, la si sarebbe potuta definire) aveva le spalle larghe, i fianchi stretti e le gambe lunghe di una donna bella ed elegante, o di una semidea. In quei giorni era la mediatrice tra Franz e l’universo, così come si suppone che l’uomo sia il mediatore fra gli atomi e le stelle. Guardarla, ammirarla, venerarla quasi, era il suo modo di salutare l’universo ogni mattina, di asserire la sua fede che vi fosse un contatto tra loro, prima di fare il caffè e di tornare a letto con la cartellina e i fogli per scrivere la dose giornaliera di storie d’orrore sovrannaturale e in particolare (il suo pane quotidiano) la versione romanzata del programma televisivo I segreti del sovrannaturale, in modo che la folla dei teleutenti potesse anche leggere, volendolo, qualcosa di analogo al miscuglio di stregoneria, scandali politici e cotte adolescenziali che vedevano sullo schermo. Un anno prima, o giù di lì, a quell’ora si sarebbe chiuso in se stesso, per rimuginare sulle proprie disgrazie e per pensare al primo bicchiere di liquore della giornata (ne aveva ancora, o la sera prima si era scolato tutta la bottiglia?) ma questo apparteneva al passato, era una cosa chiusa.

Lontano, tristi sirene da nebbia si avvertivano l’un l’altra. Per un attimo, Franz pensò a quel che accadeva a circa tre chilometri da lui, alle sue spalle, dove la Baia di San Francisco era coperta di nebbia, completamente, tolto le cime dei quattro piloni della prima campata del ponte per Oakland. Sotto la superficie della nebbia simile a vetro smerigliato, c’erano le file di automobili fumanti per l’impazienza e le navi che si passavano parola, mentre da sotto l’acqua e il fondo fangoso della baia, ma perfettamente udibile dai pescatori che attraversavano il mare sui loro piccoli battelli, giungeva il rombo misterioso della Bay Area Rapid Transit, la metropolitana rapida dell’area della Baia, i cui convogli sfrecciavano nelle gallerie subacquee per portare sul luogo di lavoro la massa dei pendolari.

Poi, danzando nell’aria che sapeva di mare, giunsero fino a lui le note dolci e allegre di un minuetto di Telemann, registrato da Cal, due piani sotto il suo. L’aveva messo per lui, si disse Franz, anche se Cal aveva vent’anni di meno. Diede un’occhiata al ritratto a olio di Daisy, la moglie morta, appeso sopra il letto dello studio, accanto a un disegno della torre TV, eseguito a linee nere, sottili come zampe di ragno, su un grande rettangolo di cartone fluorescente rosso, e non provò alcun senso di colpa. Tre anni di dolore e di alcolismo (una veglia funebre irlandese da Guinness dei primati!) glielo avevano tolto tutto, ed erano terminati quasi esattamente un anno prima.

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