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Fritz Leiber: Un nemico vivo o morto

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Fritz Leiber

Un nemico vivo o morto

Le luminose stelle del cielo di Marte formavano la volta scintillante di un fantastico dipinto. Un individuo fornito di visione retinica avrebbe visto un terrestre abbigliato con la familiare giacca e i calzoni del ventesimo secolo in piedi su un macigno che lo poneva a poco più d’un metro sopra la sabbia rugginosa. Il suo volto era ossuto, dall’aspetto ascetico. I suoi occhi balenavano indomiti dentro alle orbite incassate. Di tanto in tanto i lunghi capelli ricadevano sopra gli occhi. Le sue labbra si agitavano, vociferanti, mostrando grossi denti giallastri, e davanti ad essi vi era stabilmente una nube di fiato condensato, poiché stava tenendo un discorso… in lingua inglese. L’uomo assomigliava talmente a uno di quegli oratori di vecchio stampo che parlavano da sopra una cassetta di limoni, che veniva voglia di guardarsi intorno alla ricerca di un lampione, di una folla di ascoltatori dai volti imbambolati, traboccanti dal marciapiede, e dei poliziotti in divisa intenti a passeggiare su e giù.

Ma lo sconcertante globo di morbida radiosità che circondava il signor Whitlow faceva sprizzare bagliori di luce riflessa da gusci di smalto nero e da zampe articolate simili a quelle d’una formica vista al microscopio. Ciascun individuo di quella folla possedeva un corpo Ovale lungo circa trentacinque centimetri, del tutto sprovvisto d’una testa in qualche modo riconoscibile, nonché di qualunque orifizio sensoriale o altro sulla nera e lucida superficie, salvo una piccola bocca che funzionava come una porta scorrevole e che continuava ad aprirsi e a chiudersi ad intervalli regolari. A questo corpo erano attaccate otto zampe articolate, un paio delle quali mostrava organi terminali dotati di alte capacità di manipolazione.

Queste creature erano disposte in cerchio intorno al macigno del signor Whitlow. Davanti a lui una di queste creature se ne stava un po’ discosta dalle altre, su un macigno più piccolo. Ai lati di questa, vi erano altre due creature i cui gusci vagamente argentei suggerivano l’erosione del tempo, e perciò la vecchiaia. Al di là della folla, si stendeva un deserto nero fino a un orizzonte che s’intuiva soltanto per la brusca interruzione della distesa di stelle.

Bassa nel firmamento brillava la Terra dall’azzurro cielo, che adesso era la stessa della sera di Marte, e vicino ad essa cavalcava l’esile falce di Fobos.

Ai coleotteroidi di Marte questa scena si presentava molto diversa, poiché essi dipendevano dalla percezione più di qualunque altro sistema sensoriale, per quanto elaborato. Il loro cervello interno era conscio in modo diretto di tutto ciò che si trovava entro un raggio d’una ventina di metri. Per loro, l’azzurro bagliore della Terra era una nube fotonica che si diffondeva ai limiti della soglia della percezione, simile, ma ben distinta dalle altre nubi fotoniche delle stelle e delle deboli lune. Non potevano percepire nessuna immagine distinta della Terra, a meno che non avessero fatto uso di lenti per portare una simile immagine all’interno della loro portata percettiva. Erano consci del suolo sotto di loro come di un emisfero sabbioso percorso da un labirinto di gallerie scavate da vermi e centopiedi. Erano consci dei propri corpi corazzati e segmentati, e dei propri pensieri. Ma la loro attenzione era soprattutto concentrata, adesso, su quell’inefficiente congerie d’organi molli e scoperti che pensava a se stesso come al signor Whitlow: una stupefacente, umidiccia zuppetta di vita sull’asciutto, avaro Marte.

La fisiologia dei coleotteroidi era tipica d’un pianeta dall’economia impoverita. I loro gusci erano doppi; l’intercapedine poteva essere svuotata durante la notte, per trattenere il calore, e nuovamente riempita di giorno per assorbirlo dall’esterno. I loro polmoni erano veri e propri accumulatori di ossigeno: ad ogni espirazione corrispondevano circa cento inspirazioni di quell’atmosfera rarefatta, e la bocca a doppia valvola consentiva di accumulare una considerevole pressione interna. Utilizzavano il cento per cento dell’ossigeno inspirato ed esalavano anidride carbonica mista ad altri prodotti di scarto della respirazione. Le occasionali folate di quest’alito incredibilmente cattivo facevano arricciare le narici al signor Whitlow.

Non era niente affatto ovvio cosa mai permettesse al signor Whitlow di continuare a funzionare, di parlare perfino, in quella gelida scarsità di ossigeno. Ciò costituiva una domanda sconcertante almeno quanto la fonte del morbido chiarore che l’inondava.

La comunicazione fra lui e il suo pubblico era puramente telepatica. Stava parlando vocalmente dietro precisa richiesta dei coleotteroidi, poiché, come la maggior parte dei non-telepati, riusciva a organizzare e a render chiari al meglio i suoi pensieri mentre parlava. La sua voce era drasticamente attenuata a causa dell’aria sottile: sembrava l’ago d’un fonografo che raschiasse la superficie d’un disco senza amplificazione, il tutto intensificato dall’arcana e ridicola ampollosità del suo ampio gesticolare e delle sue contorsioni facciali.

«E così», concluse ansando Whitlow, scostandosi una volta ancora i lunghi capelli dalla fronte, «torno alla mia domanda originaria: attaccherete la Terra?»

«E noi, signor Whitlow», pensò il capo-coleotteroide, «torniamo alla nostra domanda originaria: perché dovremmo?»

Il signor Whitlow fece una smorfia, rivelando una pazienza ormai logora: «Come vi ho già detto ormai parecchie volte, non posso fornirvi una spiegazione completa. Ma vi garantisco la mia buona fede. Farò del mio meglio per fornirvi i mezzi di trasporto e facilitarvi la cosa in tutti i modi. Intendiamoci, dovrà trattarsi soltanto d’una invasione simbolica. Dopo breve tempo, potrete ritirarvi su Marte col vostro bottino. Non vorrete certo trascurare quest’occasione».

«Signor Whitlow», rispose il capo-coleotteroide con un umorismo velenoso e asciutto come il suo pianeta, «non posso leggere i suoi pensieri a meno che lei non li vocalizzi. Sono troppo confusi. Ma posso percepire i suoi pregiudizi. Lei opera partendo da un grosso malinteso riguardo la nostra psicologia. È chiaro che sul suo mondo è tradizione pensare agli esseri alieni dotati d’intelligenza come a mostri malefici il cui unico desiderio è saccheggiare, distruggere, tiranneggiare e infliggere innominabili crudeltà a creature meno progredite di loro. Niente potrebbe essere più lontano dal vero. Noi siamo una razza antica e priva di emozioni. Ci siamo lasciati alle spalle le passioni e le vanità — perfino le ambizioni — della nostra giovinezza. Noi non intraprendiamo nessun progetto se non per motivi più che validi».

«Ma questo è appunto il caso. Non vedete i grossi vantaggi della mia proposta? Quasi senza alcun rischio per voi avrete modo di fare un prezioso bottino».

Il capo dei coleotteroidi si sistemò più a suo agio sul piccolo macigno, e così fecero i suoi pensieri. «Signor Whitlow, mi permetta di ricordarle che non abbiamo mai affrontato una guerra con leggerezza. Durante l’intero corso della nostra storia, i nostri unici nemici intelligenti sono stati i molluscoidi dei mari senza maree di Venere. Nella primavera della loro cultura giunsero fin qui a bordo delle loro astronavi spaziali piene d’acqua, e noi fummo costretti a combattere guerre lunghe e amare. Ma alla fine anch’essi raggiunsero la maturità razziale e una certa spassionata saggezza, anche se non equivalente alla nostra. Fu dichiarata una tregua perpetua, a condizione che ognuna delle parti se ne restasse sul proprio pianeta e non tentasse più nessuna incursione. Per molte epoche abbiamo rispettato quella tregua, vivendo in mutuo isolamento. Perciò, come può vedere, signor Whitlow, lei può imputarci qualunque cosa, ma non d’essere inclini ad accettare una proposta strana e confusa come la sua».

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