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Fritz Leiber: L'alba delle tenebre

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Fritz Leiber L'alba delle tenebre

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L’alba delle tenebre

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Fritz Leiber

L’alba delle tenebre

1

Fratello Jarles, sacerdote del Primo ed Estremo Circolo, novizio della Gerarchia, deglutì a più riprese per soffocare la rabbia e fece uno sforzo supremo per imporsi una maschera sul viso, non solo per celare i propri sentimenti al popolo, cosa che veniva insegnata a ogni membro della Gerarchia, ma anche ai suoi confratelli.

Un prete che odiasse la Gerarchia come la odiava lui in quei terribili accessi di rabbia, doveva essere pazzo.

Ma i sacerdoti non potevano impazzire, per lo meno non senza che la Gerarchia, che sapeva ogni cosa, ne fosse a conoscenza.

Questo significava allora che lui era uno spostato? Ma un prete veniva preparato a svolgere il proprio compito con una scrupolosità e una prudenza infinite, i tratti della sua personalità vagliati con la precisione di una sonda atomica. Un sacerdote non poteva odiare il suo lavoro.

No, non c’era altra spiegazione, doveva essere impazzito. E la Gerarchia doveva avergli taciuto la verità per i propri imperscrutabili motivi.

Oppure, era vero l’esatto contrario e lui aveva ragione.

Nell’istante in cui quel pensiero angoscioso prese forma nella sua mente, la Grande Piazza di Megateopoli si offuscò e si dilatò davanti ai suoi occhi. I cittadini comuni divennero indistinte macchie grigiastre; i sacerdoti chiazze scarlatte sormontate dal sano color rosa dei visi ben pasciuti.

Nel tentativo di riacquistare padronanza di sé e pieno controllo delle proprie capacità visive, Fratello Jarles si costrinse a fissare la pietra su cui era inciso l’anno di costruzione di un edificio fabbricato di recente nel settore riservato ai cittadini comuni. La data era quella del “139 G.D…”

Cercò di mantenere la calma facendo un calcolo. L’anno 139 del Grande Dio corrispondeva all’anno 206 dell’Età dell’Oro, se il calendario di quell’epoca fosse stato ancora in vigore. Corrispondeva anche all’anno 360 dell’Era Atomica e, infine, all’anno 2305 della Civiltà dell’Alba e di… quale era il nome di quel dio? ah sì, di Cristo.

— Hamser Chohn, Cittadino del Quinto Distretto! Fa’ un passo avanti, figliolo.

Fratello Jarles fece una smorfia. Nello stato d’animo in cui si trovava il suono di quella voce stridula gli dava ai nervi in maniera insopportabile. Chissà perché lo avevano messo in coppia proprio con Fratello Chulian! E chissà perché, le regole della Gerarchia prescrivevano ai sacerdoti di lavorare sempre in due e mai da soli!

Per la verità, lui la ragione la sapeva. In quel modo potevano spiarsi a vicenda e stendere dettagliati rapporti l’uno sul conto dell’altro. E così la Gerarchia era sempre informata di tutto.

Sforzandosi di non lasciar trapelare le proprie emozioni, Fratello Jarles si voltò. I suoi occhi evitarono automaticamente il volto del quarto cittadino, allineato, insieme agli altri, davanti a lui e a Fratello Chulian.

Quest’ultimo, grasso, gli occhi azzurri, le guance cascanti e il cranio tonsurato, stava consultando le liste di lavoro, stampate con una tecnica rudimentale a uso dei cittadini comuni, i quali non sapevano (e non dovevano sapere) dell’esistenza dei nastri di lettura. In realtà, lui non aveva alcun motivo per odiare Fratello Chulian; era un sacerdote qualsiasi del Secondo Circolo, nient’altro che un bambino presuntuoso.

Eppure si può odiare anche un bambino presuntuoso, quando esercita su un gruppo di adulti i poteri del maestro, del ministro e del genitore.

C’era solo una nota positiva in quella odiosa situazione: quella particolare incombenza, che Jarles trovava tanto sgradevole, sollecitava a tal punto la burbanza di Chulian, che era sempre disposto ad assolverla interamente da solo.

Il piccolo sacerdote grasso sollevò gli occhi dall’elenco per squadrare il robusto giovanotto che, in piedi di fronte a lui, stava nervosamente torcendo fra le mani, grandi e callose, un cappello sformato, movimento che interrompeva ogni due o tre secondi per strofinare a turno le palme contro la stoffa grezza del grembiule.

— Figliolo — riprese la voce stridula in tono benevolo — per i prossimi tre mesi lavorerai nelle miniere. Di conseguenza, il tuo contributo alla Gerarchia sarà ridotto alla mera metà dei tuoi guadagni. Dovrai presentarti a rapporto al diacono responsabile domani mattina all’alba. Hamser Dom!

Il giovanotto deglutì, annuì con un ripetuto cenno del capo e si fece rapidamente da parte.

Jarles sentì di nuovo la rabbia esplodergli dentro. Nelle miniere! Il lavoro in miniera era di gran lunga peggiore di quello nei campi o sulle strade! Di sicuro lo sapeva anche quell’uomo, eppure quando aveva appreso la notizia, aveva rivolto a Fratello Chulian uno sguardo colmo di gratitudine: lo stesso sguardo servile che i vecchi libri attribuivano a un fedele animale domestico del genere Canis, ora estinto.

Jarles distolse gli occhi, evitando ancora una volta di posarli sul volto del cittadino che aveva saltato poco prima, terzo nella fila adesso. Si trattava di una donna.

Il sole che stava tramontando proiettava ombre cupe sulla Grande Piazza. La folla si stava lentamente diradando; ormai erano rimaste solo poche decine di popolani, ancora in attesa di sapere quale lavoro la Gerarchia avesse assegnato loro. Qua e là, chi in grembiule, chi in blusa, gli altri cittadini (gli uomini con mollettiere malfatte, le donne con gonne pesanti) radunavano quel che restava dei manufatti che avevano portato con sé per venderli o barattarli; se li caricavano in spalla o li sistemavano sul dorso di piccoli muli robusti, e poi si avviavano lentamente verso le viuzze lastricate di ciottoli che conducevano alle loro case. Alcuni indossavano cappelli a tesa larga di feltro grezzo, altri si erano già tirati su il cappuccio, anche se non era ancora calato il freddo della sera.

Volgendo lo sguardo verso il settore della città di Megateopoli in cui abitavano i cittadini comuni, a Jarles ritornarono in mente le illustrazioni delle città dei Secoli Bui, o Medio Evo, o qualunque altro nome fosse stato dato a quell’epoca della Civiltà dell’Alba. La sola differenza era che lì le case erano per lo più a un solo piano e prive di finestre, e tutte molto linde e ben tenute. Benché lui fosse solo un sacerdote del Primo Circolo, sapeva che quella somiglianza non era una semplice coincidenza. La Gerarchia non lasciava mai nulla al caso: aveva una ragione per ogni cosa.

Una vecchia donna, vestita di stracci e con un cappello a punta calcato sulla testa, si allontanò zoppicando. Al suo passaggio, gli altri cittadini si fecero di lato. Un ragazzino urlò: — Madre Jujy! Strega! Strega! — Poi le lanciò una pietra e corse via. Jarles, invece, le rivolse un debole sorriso. Lei lo ricambiò, storcendo le labbra rugose in una sgradevole smorfia che le scoprì le gengive sdentate e per poco non portò il naso adunco a toccare il mento sporgente. Dopodiché, riprese il cammino, saggiando l’acciottolato con il bastone per non inciampare.

Come per magia, la parte opposta di Megateopoli era completamente diversa. Lì sorgevano i grandiosi edifici del Santuario, sormontati dalla straordinaria struttura della Cattedrale, che si affacciava sulla Grande Piazza.

Jarles sollevò lo sguardo sul Grande Dio e, per un attimo, sentì farsi strada fra la rabbia una punta di quel timore riverenziale che quell’immenso idolo aveva suscitato in lui da bambino, molti anni prima che superasse le prove e venisse iniziato ai segreti della casta sacerdotale. Era possibile che con quei suoi enormi occhi inquisitori, sotto le sopracciglia vagamente aggrottate, il Grande Dio fosse in grado di vedere la sua ira blasfema? Ma una simile fantasia superstiziosa era indegna persino di un novizio della Gerarchia.

Anche senza l’effigie del Grande Dio, la Cattedrale era un edificio imponente, con le sue ciclopiche colonne e le finestre ogivali alte come pini. Ma là dove ci si sarebbe aspettati di vedere svettare un campanile o un paio di torri, iniziava la statua del dio, rappresentato nella parte superiore da una gigantesca figura umana, terribile nella sua dignità e nella sua serenità. Ma il busto titanico non stonava affatto con il fabbricato sottostante, sia perché era stato realizzato nella medesima materia plastica grigia, sia perché le ampie pieghe del drappeggio confluivano a formare le colonne della Cattedrale stessa.

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