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Fritz Leiber: L'alba delle tenebre

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Fritz Leiber L'alba delle tenebre

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L’alba delle tenebre

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— Lascia perdere l’atmosfera, uomo e vieni ai fatti! — intervenne Fratello Frejeris.

— I fatti! — lo aggredì Sercival.

— Be’ si tratta… si tratta dei lupi — disse il rozzo sacerdote con tono quasi di sfida. — Lo so che esistono solo nei vecchi libri, ma noi di notte li vediamo. Sono grigi come il fumo, come questi muri, grandi come cavalli e hanno gli occhi rossi. Avanzano a balzi, in grandi branchi, simili a banchi di nebbia. Entrano furtivamente in città e accerchiano il Santuario e quando alcuni di noi sono costretti a uscire di notte, li seguono. Non riusciamo a ucciderli né con il Dito dell’Ira né con le Verghe! Sfuggono alla luce delle verghe e si appiattiscono nell’ombra. Reverende arcipreture, vi assicuro che il popolo è spaventato a morte e lo sono anche gran parte dei novizi. Ma non è tutto. Di notte, nelle celle sentiamo delle strane cose che ci si rannicchiano sul petto!

— Le ho sentite anch’io! — lo interruppe eccitato un altro prete. — Sono cose fredde e pelose che ti si attaccano ai vestiti e poi ti tastano gentilmente il viso. Dopo un po’ ci si siedono sopra, leggere come piume. E tu non sai se sogni o se sei desto. Poi ti si strofinano contro e cominciano a parlare con delle vocine stridule. Dicono cose che uno neanche oserebbe ripetere. Ma poi, quando accendi la luce o cerchi di afferrarle, scompaiono, anche se tu continui a sentirtele addosso. Sono esserini scheletrici, ricoperti di un pelo finissimo… simile ai capelli umani!

Nell’udire quel racconto, un terzo sacerdote, un individuo stempiato e dal colorito giallognolo che sembrava un maestro di scuola, impallidì violentemente. — Anch’io ho avuto questa impressione! — esclamò con voce tesa, gli occhi sbarrati a fissare un punto lontano. — Fratello Galjiwin e io eravamo andati a perquisire la casa di un cittadino comune, che sospettavamo avesse occultato parte delle stoffe che aveva tessuto e sulle quali gravava la decima. Erano brutta gente; la figlia, poi, era la peggiore di tutti, una sgualdrina dai capelli rossi. Ma a me non la facevano. Mi bastò dare un’occhiata in giro per accorgermi che una delle assi del muro era staccata. La sollevai e infilai la mano nel vano. Quella sgualdrina continuava a fissarmi e a sorridermi con un’impudenza inaudita. A un certo punto, tastando, sentii quello che mi parve un rotolo di stoffa molto pelosa e allungai ulteriormente la mano per tirarlo fuori. Ma in quel momento, la stoffa prese vita! Cominciò a muoversi e a contorcersi. Era fredda, pelosa, ma come ha detto lui aveva qualcosa di umano… anche se il vano non era più profondo di cinque o sei centimetri! Facemmo abbattere la parete: assistemmo all’intera operazione di demolizione, ma dal muro non uscì niente. Né vi trovammo nascosto il più piccolo brandello di stoffa. Assegnammo alla famiglia una quantità extra di lana da tessere, per punizione. Poi, sulla ragazza, rinvenimmo i segni della stregoneria e dopo aver ottenuto una speciale dispensa la spedimmo a lavorare nelle miniere insieme agli uomini.

“Una cosa, però, non la dimenticherò mai: quando tirai fuori la mano dall’intercapedine, mi accorsi che due sottili peli mi erano rimasti impigliati in un’unghia scheggiata: due peli dello stesso color rame dei capelli della ragazza!

“Da quel giorno, quando dormo male, continuo a sentire quella cosa. Come un ragno che mi cammina sul palmo della mano!”

Di colpo si sciolsero tutte le lingue e fu un susseguirsi di racconti terrificanti. A un tratto, una voce, più alta delle altre, esclamò: — Dicono che siano quelle cose a far comparire i segni della stregoneria!

Uno degli arcipreti del Sommo Concilio rise con ostentato disprezzo. Ma c’era una nota falsa nella sua risata.

Fratello Frejeris sorrise e inarcò allusivamente le sopracciglia, come per dire: — Isteria di massa. Io vi avevo avvertito.

— Prima ho detto che tutto questo sembra irreale, qui a Megateopoli — riprese il primo sacerdote che aveva parlato. Il tono della sua voce era di scusa, eppure il suo sguardo tradiva ancora un’ombra di sfida. — Ma dopo le nostre prime segnalazioni un sacerdote del Quinto Circolo fu mandato giù a indagare. Anche lui vide quello che avevamo visto noi, ma non disse nulla. Il giorno dopo ripartì e noi non abbiamo mai saputo se avesse scoperto qualcosa.

— Noi ci aspettiamo che la Gerarchia ci protegga!

— Vogliamo sapere che cosa la Gerarchia ha intenzione di fare!

— Dicono — intervenne il prete che aveva menzionato i segni della stregoneria — che esista un Concilio Nero in tutto e per tutto simile al Sommo Concilio. E una Gerarchia Nera organizzata come noi che serve Satanas, il Signore del Male!

— Proprio così — gli fece eco il primo sacerdote che aveva parlato. — E se è vero io voglio saperlo. È possibile che avendo fatto finta per secoli che esistesse un vero dio, abbiamo in qualche modo, non so come, risvegliato un vero diavolo? Che cosa accadrebbe in questo caso?

Un brivido di terrore percorse la Camera del Concilio, ma Goniface non si scompose. Si drizzò a sedere sul suo scranno e quando parlò le sue parole fendettero il silenzio come sciabolate. La sua voce non aveva la musicalità di quella di Frejeris, ma era ugualmente convincente e imponeva rispetto.

— Silenzio! Altrimenti sì che risveglierete un vero demone. Il demone della nostra ira!

Guardò i suoi confratelli seduti dietro il tavolo. — Che cosa dobbiamo farne di questi stupidi?

— Che vengano frustati — sbottò Sercival stizzito, la scarna mascella contratta, i piccoli occhi lampeggianti nelle orbite coriacee. — Che vengano frustati per essersi comportati in modo tanto codardo davanti ai trucchi e alle minacce di Satanas!

I preti di campagna si agitarono con apprensione. Frejeris alzò gli occhi al cielo, come per dire che quella proposta gli sembrava indicibilmente barbara, mentre Goniface annuì educatamente, pur non dando segno di approvarla. Senza volerlo, gli venne improvvisamente da chiedersi in che misura il vecchio Sercival e gli altri Fanatici credessero veramente nell’esistenza del Grande Dio e del suo eterno nemico, Satanas, il Signore del Male. La loro era una posa, naturalmente, ma forse, sotto sotto, in loro c’era anche un fondo di genuinità. Non quella genuinità che derivava dalle superstizioni di cui si nutrivano i comuni cittadini (quelle venivano tutte sfatate al Primo e al Secondo Circolo, altrimenti un prete non passava di grado), ma piuttosto da una sorte di auto-ipnosi indotta dall’annosa contemplazione dei meravigliosi poteri della Gerarchia, che alla fine li aveva portati ad attribuire a quei poteri un’origine soprannaturale. Per fortuna, i Fanatici erano molto pochi, così pochi da non essere degni di venire considerati un partito. Nel Sommo Concilio ne sedeva soltanto uno, Sercival per l’appunto, e quell’onore gli era stato conferito solo in tarda età. Eppure, forse, un giorno anche quel vecchio pazzo si sarebbe potuto rivelare utile. Era spietato e sanguinario e, nel caso in cui fosse stato necessario far ricorso alla violenza, sarebbe stato un perfetto capro espiatorio. In questo senso, il Partito Fanatico serviva a controbilanciare la più nutrita minoranza dei Moderati, lasciando ai Realisti di Goniface il pressoché totale controllo del potere.

Ma quei poveri preti di campagna non erano dei Fanatici. Tutt’altro. Se avessero avuto anche solo un pizzico di fiducia nel Grande Dio, in qualsiasi dio, non sarebbero stati così spaventati. Goniface si alzò in piedi per rimproverarli.

Ma non fece in tempo ad aprire la bocca, perché all’improvviso, all’estremità opposta della Camera, le grandi porte si aprirono ed entrò un sacerdote, che si affrettò in direzione del tavolo. Goniface riconobbe in lui uno dei Moderati di Frejeris.

Il nuovo arrivato camminava in modo tutt’altro che solenne, come si addiceva a un prete del suo rango, anzi stava quasi correndo.

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