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Fritz Leiber: L'alba delle tenebre

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Fritz Leiber L'alba delle tenebre

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L’alba delle tenebre

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Solo in momenti come quello un uomo poteva dire di vivere veramente! Avere il potere era bello. Usarlo in modo rischioso più bello ancora.

Ma usarlo per combattere un nemico potente quasi quanto sé, era semplicemente meraviglioso.

Si aggiustò la veste scarlatta intessuta d’oro, ordinò alle grandi porte di aprirsi ed entrò con sussiego nella Camera del Concilio.

Su un’ampia predella, all’estremità dell’enorme sala madreperlacea, si trovava un lungo tavolo e, dietro questo, una fila di seggi, tutti occupati da arcipreti sontuosamente vestiti, a eccezione di uno.

Goniface esultava a ogni passo del lungo tragitto che lo separava dal tavolo, con tutti gli altri arcipreti già seduti al proprio posto. Gli piaceva sapere che lo stavano guardando, con l’intima speranza che inciampasse o che scivolasse sul pavimento, anche una volta soltanto. Gli piaceva immaginare come gli sarebbero saltati addosso, simili a gatti famelici, se solo avessero avuto qualche vago sospetto sul segreto del suo passato, la più atroce di tutte le beffe.

Gli piaceva immaginarlo e poi dimenticarlo!

Quel lungo percorso attraverso la Camera del Concilio, sotto gli sguardi critici dei suoi confratelli, rappresentava per Goniface qualcosa che nessun altro arciprete sembrava in grado di capire, qualcosa che non avrebbe mai permesso a niente e a nessuno di portargli via: la possibilità di assaporare, al suo livello di massima pienezza e tensione, il potere e la gloria della Gerarchia, il governo più stabile che il mondo avesse mai conosciuto. L’unica forma di potere che valesse la pena di conquistare e mantenere. Costruito su un cumulo di menzogne, (come del resto tutti i governi, pensò Goniface) eppure perfettamente in grado di risolvere gli intricati problemi della società umana. E concepito in modo tale per cui più un membro della casta sacerdotale lottava per accrescere il proprio personale potere, più si identificava con le finalità e promuoveva il benessere della casta stessa.

In momenti come quelli, Fratello Goniface era così eccitato da avere delle vere e proprie visioni. I suoi occhi trapassavano le alte pareti grigio-perla della Camera del Concilio e osservavano l’alacre ed efficiente lavoro del Santuario; percepiva il ronzio ininterrotto dell’attività intellettuale e direttiva che vi si svolgeva e ne godeva i sottili piaceri. Poi il suo sguardo varcava i confini del Santuario e abbracciava la scacchiera perfetta dei campi coltivati, oltrepassava la curva dell’orizzonte per accarezzare le mura scintillanti di altri Santuari, che in campagna erano semplici e modesti eremitaggi, in città edifici maestosi, con la Cattedrale e l’Onnipotente Automa che torreggiava sulla piazza. Quindi attraversava gli immensi oceani blu, sorvolava altri continenti e splendide isole tropicali; penetrava in ogni recesso della terra per vedere e percepire ovunque, con un piacere che andava al di là del piacere, l’attività delle tonache scarlatte: dalle masserie abbarbicate al titanico Himalaya alle accoglienti stazioni scavate sotto i ghiacci nel cuore dell’Antartide. Santuari ovunque, punti di raccordo di una ragnatela che copriva tutto il globo, gangli di un organismo marino che nuotava nel mare dello spazio.

E poi, oltre i confini della terra… fino al cielo!

Quando Goniface fu a circa metà strada fra l’ingresso della Camera e il Tavolo del Concilio, la sua immaginazione cominciò il viaggio di ritorno. Adesso seguiva le linee della piramide sociale: prima la grande base dei cittadini comuni, l’indispensabile substrato bestiale e pressoché stupido della società; poi lo strato, sottile e isolante, dei diaconi. Quindi i novizi e la massa dei sacerdoti del primo e secondo circolo, che rappresentavano i sette ottavi delle tonache scarlatte. A partire da quel punto, il cono si restringeva rapidamente: via via i circoli superiori, ciascuno con il proprio ambito di competenze e di ricerca, fino su, al Settimo Circolo, il più piccolo, al quale appartenevano le massime autorità della Gerarchia.

Poi, al vertice della piramide, gli arcipreti e il Sommo Concilio.

E infine, che i suoi confratelli lo sapessero o no, che lo paventassero o lo desiderassero inconsciamente, lui, al di sopra di tutti!

Scivolò nel suo scranno e, benché conoscesse già la risposta, domandò: — Qual è l’argomento di oggi?

— Quello che piaccia alle arcipreture vostre — annunciò, con voce ben modulata, un chierico del Secondo Circolo — mi avete chiesto di definire la Questione dei Sacerdoti Spaventati.

Goniface percepì l’immediata irritazione dei suoi confratelli. Quello era uno di quei bizzarri problemi che si rifiutavano di adattarsi alle consuete procedure e che, di conseguenza, contrariavano enormemente le menti più conservatrici. Per due giorni di seguito, il Sommo Concilio si era rifiutato di affrontarlo.

— Che cosa ne pensate, Fratelli? — azzardò Goniface con finta indifferenza. — Dovremmo convocare i sacerdoti di campagna tutti insieme? E svergognarli obbligandoli ad ascoltare l’uno le storie infantili dell’altro?

— Ma questo contrasta con le più elementari nozioni di psicologia — osservò Fratello Frejeris, con quella sua voce così bella e forte da ricordare le note centrali di un organo. — In questo modo incoraggeremo l’isteria di massa.

Goniface annuì educatamente e poi aggiunse: — Fratello, tu nobiliti la loro condizione usando parole altisonanti — e di nuovo lasciò scorrere gli occhi lungo il tavolo con sguardo interrogativo.

— Riuniamoli tutti insieme — esortò il Realista Jomald. — Altrimenti resteremo qui tutta la notte.

Goniface lanciò un’occhiata al membro più anziano del Concilio, Fratello Sercival, il cui cranio incartapecorito era soffuso di una luce argentea, riflesso dei capelli candidi che probabilmente aveva tagliato soltanto il giorno avanti.

— Insieme! — decretò quest’ultimo, dischiudendo appena le labbra sottili. Sempre avaro di parole, quel vecchio Fanatico!

Dopo la sua approvazione il consenso dell’assemblea fu unanime.

— La mia non era un’obiezione pregiudiziale — mormorò Fratello Frejeris, accantonando l’argomento con un gesto della mano bianca e statuaria. — Volevo soltanto evitare che si creasse una situazione che può rivelarsi disorientante per chi non è esperto psicologo.

Un chierico trasmise gli ordini necessari.

Mentre aspettavano, Fratello Frejeris abbassò gli occhi sul grembo. — Sono stato informato — disse con affettata noncuranza — che ci sono disordini nella Grande Piazza.

Goniface evitò di incrociare il suo sguardo.

— Se ci saranno sviluppi — disse con tono pacato — il nostro servo Cugino Deth ci informerà.

— Il tuo servo, Fratello — lo corresse con altrettanta pacatezza Frejeris.

Goniface non rispose.

Un gruppo di preti entrò nella sala attraverso una porta laterale. In apparenza, erano assolutamente identici ai sacerdoti del Santuario di Megateopoli, ma agli occhi dei membri del Sommo Concilio il loro portamento, i loro gesti, il modo in cui indossavano la veste scarlatta e perfino il taglio stesso delle loro tonache, erano sinonimi di “campagna”.

Si fermarono davanti al tavolo, confusi e, soprattutto, ammirati.

Il loro numero non faceva che sottolineare la vastità grigia e splendente della Camera del Concilio.

— Reverende Arcipreture — esordì un rozzo individuo, che pur non avendo mai lavorato nei campi sembrava aver assorbito l’essenza primitiva della terra. — Io so che quello che sto per dirvi suonerà molto irreale qui a Megateopoli — proseguì con voce esitante, gli occhi alzati a inseguire gli alti muri a volta, fino a perdersi nel soffitto così lontano da essere quasi invisibile. — Qui a Megateopoli, dove se volete potete trasformare il giorno in notte. Dove viviamo noi è diverso. Là la notte cala lentamente e imprigiona uomini e cose nelle tenebre. Si sente il silenzio scivolare dai campi e afferrare la città…

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