Fritz Leiber
Il verde millennio
Phil Gish si svegliò di ottimo umore, come se tutta la sua vita precedente fosse appartenuta ad altre due persone (poveri disgraziati!).
Di solito balzava fuori dal letto come una molla e infilava in un baleno mutande e calze, mentre cercava freneticamente il barattolo della crema da barba. Ma questa volta riuscì a dominare i suoi impulsi nervosi e a tenere gli occhi chiusi. Voleva gustare fino in fondo questa sensazione che si sentiva dentro, del tutto sconosciuta e così intensa da non poterla spartire neppure con gli annunci pubblicitari che coprivano le pareti del suo piccolo appartamento di scapolo.
Era semplicemente meraviglioso, decise dopo un po’. Straordinariamente, assurdamente meraviglioso!
Era come se quello non fosse più il mondo in cui da cinquant’anni scoppiavano improvvise, l’una dopo l’altra, guerre calde e fredde; in cui il Federal Bureau of Loyalty e la Divertimenti SpA governavano gli USA in nome di quel contadino ubriacone e bigotto del Presidente Robert T. Barnes, e in cui (secondo Radioluna Rossa, il satellite d’informazioni del Cremlino) si stava prendendo in considerazione un nuovo piano per lo scambio dei discendenti dei prigionieri fatti nella guerra di Corea, mezzo secolo prima. Come se lui, Phil Gish, non fosse un povero diavolo che quella mattina, alle otto, aveva preso quattro pillole di sonnifero nella speranza di dimenticare, almeno per un po’, di avere perso di nuovo il posto perché c’era un robot che faceva il suo lavoro cinque volte più rapidamente e due volte più accuratamente di lui; cosa che lo aveva fatto andare in bestia, con l’unico risultato di ottenere il freddo consiglio di rivolgersi a uno psichiatra.
Fece un profondo e voluttuoso respiro. Anche l’aria aveva un sapore diverso, come se contenesse qualche meraviglioso composto che allontanava le preoccupazioni.
Aprì gli occhi e si osservò il petto pallido, e i due peli solitari, beffarde memorie di un glorioso passato scimmiesco. Ma questa volta il termine che gli venne in mente non fu “magro”, ma “snello”. Decise che tutto sommato il suo corpo gli piaceva; solido, ben fatto, anche se non proprio muscoloso. Sbadigliò, si stirò, si grattò vicino ai due peli e si guardò intorno. Il gatto verde era seduto sul davanzale della grande finestra rotonda e gli sorrideva.
— Ehi, sto sognando?
Il suono stesso della sua voce un po’ rauca, come sempre al mattino, rispose alla sua domanda.
“Non sarò mica ammattito sul serio?” Questa seconda domanda, espressa senza parole, venne subito accantonata. Si sentiva troppo bene per preoccuparsi. Se questa era pazzia, allora evviva la paranoia!
E poi, ci potevano essere innumerevoli spiegazioni naturali per il colore un po’ insolito del gatto. Solamente il giorno prima aveva visto una giovane signora che portava a spasso due barboncini rosa. Uno sprazzo di quello che poteva nascondere sotto il soprabito, un topless forse, lo aveva spinto a passarle vicino, e così aveva sentito che diceva al suo accompagnatore: «Non sono tinti, sciocco, sono mutanti!»
Inoltre, non c’erano forse degli animali verdi, come il bradipo? Però gli pareva di ricordare che la tinta del bradipo fosse dovuta a un fungo o a una muffa, mentre certamente non c’era alcuna traccia di muffa sulla pelliccia lucida dell’animale dall’aria benevola che sedeva sul davanzale.
— Ciao Lucky — disse sottovoce. Fin dal primo istante aveva deciso che doveva esserci un nesso fra il gatto e il suo nuovo incredibile stato di benessere. Se doveva iniziare una nuova èra nella sua vita, non ci sarebbe stato male un simbolo: un simbolo verde come la primavera. Almeno così gli sembrava.
— Vieni, Lucky — chiamò, senza alzare la testa dal morbido cuscino. — Vieni, micio — ripeté sentendosi un po’ sciocco.
Ma non ci fu bisogno di pregarlo di più. Il gatto saltò subito giù dal davanzale e trotterellò verso di lui, la pancia ondeggiante, come un piccolo cavallo grasso dai morbidi zoccoli. Phil sentì che la sua calma interiore cresceva in modo quasi sconvolgente. Il gatto sparì dietro il bordo del letto. Poi apparve il musetto verde, due piccole zampine verdi gli si posarono accanto, e due occhi color rame lo scrutarono.
— Come va, amico? — chiese Phil. — Felice di fare la tua conoscenza. Sei proprio un bel tipo, sai? Da dove arrivi?
Il musetto fece segno verso l’alto.
— Dal piano di sopra? — chiese Phil, e subito rise fra sé per aver interpretato il movimento come una risposta. — Perché non stai un po’ con me? Mi piace il tuo musetto e il tuo colore. Anch’io ogni tanto avrei voglia di essere verde. Tanto per cambiare.
Il muso del gatto era strano e curiosamente attraente: grandi orecchie, la fronte alta, il nasino quasi nascosto fra il pelo, e i baffi appena accennati, la bocca atteggiata in una smorfia imbronciata. Per un attimo Phil ebbe la sensazione che Lucky sarebbe potuto apparire molto diverso, molto meno simile a un gatto, se preso alla sprovvista. Era di un verde intenso, quasi verderame, solo più brillante.
Si chiese di che sesso potesse essere. Il grasso della pancia suggeriva che si trattasse di una femmina, eppure, per qualche ragione, Phil era sicuro che fosse un maschio.
Poi Lucky sorrise di nuovo, e Phil non ci pensò più. Allungò cautamente una mano, ma la ritrasse di scatto quando una zampina si mosse fulmineamente verso di essa. Poi, vergognandosi, rifece il gesto e la zampina gli toccò un dito. Phil, in risposta, l’accarezzò. Non avvertì la minima traccia di artigli. Dovevano essere tutti ritirati all’interno delle loro morbide guaine.
— Ora siamo amici — disse Phil con voce un po’ rauca. Il gatto saltò sul letto senza paura. Gli occhi di rame si fecero più vicini… una guancia pelosa si strofinò contro quella dell’uomo in un breve gesto d’amicizia. Phil si sentì gli occhi umidi per le lacrime.
“Che vita priva di affetti dev’essere la mia” pensò “se un gatto può farmi piangere”. Eppure era proprio così. La sua vita era sempre stata una delusione. I suoi genitori, dapprima, gli erano sembrati affettuosi e meravigliosi, ma poi aveva cominciato ad accorgersi delle loro grigie incertezze, della loro noia. Per un certo periodo la scuola era stata piena di straordinarie promesse, gli si erano aperte prospettive di conoscenza e di idealistica fratellanza; ma troppe di quelle prospettive erano chiuse da cartelli che dicevano: proibito o sovversivo , o da un ancora più insopportabile silenzio calcolato. Così come era successo all’uomo, che si era ripromesso di andare sui pianeti. Ma non l’aveva fatto. C’erano stati persino degli amici, un tempo, e un amore. Ma anche queste cose si erano rivelate un fallimento. E poi la serie interminabile di posti perduti a causa dei robot, a cominciare dai robot postini che individuavano la destinazione delle lettere leggendo gli indirizzi con una cellula fotoelettrica. L’unica cosa che i robot non sapevano fare, a quanto pareva, era quella di imboscarsi: un’attività nella quale Phil poteva vantarsi di non avere rivali automatizzati.
Sì, era stata una vita veramente vuota e priva di scopo la sua, si disse Phil, chiedendosi nello stesso tempo come mai neppure quella considerazione riuscisse a offuscare la sua presente felicità.
Si riscosse da quei pensieri e vide che il gatto stava passeggiando sul letto, ispezionando il suo corpo nudo.
— Ehi, va bene che siamo amici, ma non ti sembra di esagerare? Rispetta la mia intimità! — Ridendo scese dal letto e prima di uscire dal cono di calore proiettato dal soffitto, indossò una leggera vestaglia. Rabbrividì. Si mise a canticchiare un paio di strofe di Baciami a zero G e accennò un passo di danza, cosa che fece scattare il gatto alla rincorsa dei suoi piedi.
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