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Fritz Leiber: Il verde millennio

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Fritz Leiber Il verde millennio

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Nella solitudine della stanza in cui egli si ritrovava, la sua avventura allucinante gli stava passando davanti agli occhi. Si era sentito un altro, quel mattino, svegliandosi, quando aveva visto sul davanzale quel gatto stranissimo dal mantello di un verde smeraldo. La fuga del gatto, la visita allo psichiatra erano venute dopo; e poi, via via di seguito tutti gli altri fatti strani. Allucinazioni, sì. Ma qualcosa di vero sarebbe rimasto. Lo sdoppiamento del suo io sarebbe arrivato a qualcosa di concreto: una essenza di vita più buona, un mondo migliore in cui avrebbero agito una creatura di un altro mondo e una interminabile teoria di gatti dai mantelli tutti verdi.

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Si tolse l’altra calza e la scarpa con il medesimo risultato. Phil si accorse che il piede si adattava a un buco ricavato nella scarpa, restando in tal modo nascosto.

Poi cominciò a danzare gioiosamente. Phil poteva sentire il ticchettio degli zoccoli. E lui che aveva creduto che ballasse il tip-tap! Poteva distinguere chiaramente i garretti con i loro ciuffetti di pelo, identici per colore e aspetto al “corpetto”.

Lei smise di ballare, prese un rasoio e cominciò a radersi con attenzione l’orlo del “corpetto”.

Phil cominciò a pensare a voce alta. Arrivò a dire: — Prima un gatto verde, poi… — e il momento dopo si era girato e cominciava a correre verso la porta.

I suoi ricordi da quel momento si fecero un po’ confusi. Per esempio, quando attraversò di corsa la strada due isolati dopo la Skyway Tower per poco non venne investito da una macchina nera, con una carrozzeria tipo primi novecento, che andava a bassa velocità. In essa sedevano Cookie, gli Akeley e Swish Jack Jones con una scatola appoggiata sulle ginocchia. In quel momento Phil non li riconobbe neppure.

L’unica cosa certa per lui era quella che stringeva fra le dita, nella tasca: il nastro spiegazzato col nome e l’indirizzo del dottor Romadka.

4

La luce dell’indicatore salì velocemente fino all’ultimo pulsante, l’ascensore si arrestò con un soffio, e Phil uscì dalla porta scorrevole in un piccolo ingresso, coperto da un folto tappeto simile a un prato grigio. Da una delle pareti, una voce femminile, piena di fascino, mormorò: — Buona sera. Avete un appuntamento?

— Uh — fece Phil, piuttosto sorpreso per il solo fatto di riuscire a parlare.

— Avete un appuntamento? — ripeté la parete. — Rispondete con un sì o con un no, prego.

— Sì — disse Phil.

— Volete dirmi il vostro nome?

— Phil Gish. — Non appena ebbe pronunciato quelle parole, gli venne il dubbio che forse doveva nominare Jack Jones, ma la parete, dopo un breve ronzio soffocato, disse: — Piacere, signor Gish. Accomodatevi, prego.

Nella parete apparve una surrealistica porta a forma di pera. Phil entrò. Un braccio sinuoso, liscio e lucente come un serpente, spuntò di fianco a lui e indicò una sedia, col gesto elegante di una hostess che abbia studiato danza.

— Volete accomodarvi? — suggerì la parete. — Il dottor Romadka arriverà fra pochi istanti.

Phil inghiottì. Aveva la sensazione che se si fosse azzardato a superare la zona che gli era stata indicata, il braccio lo avrebbe fermato senza complimenti. Anche se probabilmente avrebbe accompagnato il gesto con un gentile “Vogliate scusarmi”, o magari un “Fai il bravo, Phil”.

Decise di ubbidire e di sedersi. La parete disse: — Grazie. — Allora tornò ad alzarsi. La parete disse: — Desiderate? — con una lieve nota d’impazienza. Si risedette. — Grazie — ripeté la parete.

La stanza era buia, ovattata e silenziosa. Evidentemente la maggior parte dei pazienti del dottor Romadka facevano sogni lussuosi. L’inevitabile scrivania era a forma di S, come un divano per innamorati. In giro non c’erano avvisi pubblicitari: un sicuro segno di ricchezza. Su una parte spiccava un grande disegno rotondo, forse copiato da qualche originale greco, che inquietò un poco Phil con la sua allusione a ninfe e satiri. Distolse rapidamente lo sguardo e diede un’occhiata circolare alla stanza; al di là di un arco si scorgeva l’inizio di una scala. Concluse che il dottor Romadka doveva possedere anche un attico.

Improvvisamente udì delle voci adirate, di un uomo e di una ragazza. Quest’ultima gettò un grido acuto, pieno di odio. Poi, da qualche parte, una porta sbatté violentemente, e poco dopo un uomo scese dalle scale senza muovere i piedi. Phil ne dedusse che doveva trattarsi di una scala mobile.

Il dottor Romadka era obeso, calvo e sorridente. Sulla guancia aveva quattro graffi profondi, recentissimi, che lui ignorava del tutto, aspettandosi evidentemente altrettanto da Phil. Gli fece cenno di accomodarsi. Si sedettero e si guardarono attraverso il piano ricurvo e lucido della scrivania.

Lo psichiatra sorrise. — Bene, signor Gish? Jack Jones mi ha fatto il vostro nome, e dal momento che sono Sacheverell e Mary a pagare, per me va bene lo stesso. Oh, Sacheverell e Mary sono il signore e la signora Akeley, gli amici di Jack Jones. Credevo che lo sapeste. Tra parentesi, siete in ritardo di un’ora.

Una goccia di sangue cadde sulla camicia, allargandosi.

Phil rabbrividì, poi riuscì finalmente a parlare. — Ero occupato a impazzire.

Lo psichiatra annuì. — Sembrate un po’ sconvolto.

— Un po’?

— Insomma… — fece l’altro, stringendosi nelle spalle come per scusarsi della sua insufficiente capacità descrittiva. Poi continuò: — Non dovete essere sorpreso di impazzire, come dite voi, signor Gish… posso chiamarvi Phil? Di questi tempi è la regola, piuttosto che l’eccezione, anche se il fatto che voi lo ammettiate è abbastanza fuori del comune. Da più di un secolo gli americani stanno vivendo in una specie di pazzia collettiva, di schizofrenia di massa, paragonabile soltanto alla mania olandese per i tulipani, alla caccia alle streghe, al ballo di San Vito, al trotzkismo e alle crociate. Fino al 1950 la nostra avrebbe potuto essere chiamata la Febbre dell’Automobile, ma ora anche la più fervida immaginazione non saprebbe trovare una definizione… Sto scrivendo un libro controcorrente su questo argomento. Non che l’attuale pazzia collettiva sia qualcosa di misterioso o straordinario. Quali altri risultati ci si potevano aspettare da una società, come quella americana, che da un lato sopravvaluta la sicurezza, la censura, un immaginario idealismo messianico e il sacrificio in guerra, e dall’altro manifesta un’insaziabile avidità per il possesso, la competizione spietata e aggressiva, il sadismo maschilista, il disprezzo per i genitori e lo Stato, e una sessualità assurdamente sovrastimolata?

La voce del dottore si fece più alta e stridente, mentre gli occhi sembravano uscirgli dalle orbite, come se la sua indignazione nascesse anche da qualcosa di personale. Ma subito dopo ritornò alla sua posa cortese, professionale.

— Ora, Phil, esaminiamo come questa società malata vi ha contagiato. Forse vi sorprenderà, ma non useremo nessuna di quelle tecniche moderne, come l’elettrosonno, la cerebrofotografia o la terapia situazionale con un’amante-robot bionda. Noi faremo semplicemente quello che avrebbero fatto i nostri trisavoli: parleremo. Ci metteremo a nostro agio. Questa scrivania è stata costruita in modo che possiamo stare vicini, senza però essere obbligati a guardarci negli occhi. Volete fumare? Benissimo! Fate pure! Ora cominciamo dal principio. Parlatemi della vostra vita.

Phil inghiottì. — Mi scusi, dottor Romadka, ma preferirei farlo dopo. Ora vorrei raccontarvi della mia esperienza, voglio dire, delle allucinazioni che ho appena avuto e che mi hanno convinto di essere impazzito, e poi desidero che mi diciate qualcosa in proposito, cioè, che le interpretiate, le psicoanalizziate o qualcosa del genere.

L’altro alzò le spalle, tutto contento. — È un inizio che vale come un altro. Dite pure.

Phil gli raccontò quello che aveva visto attraverso la finestra semioscurata. Dovette ammettere, pieno di vergogna e sotto il pungolo esperto dell’analista, di avere usato spesso la finestra come punto di osservazione. Quando poi si trattò di raccontare l’allucinazione vera e propria, si accorse che il ricordo lo faceva ancora tremare di paura, ma alla fine riuscì a dire tutto.

Il dottor Romadka sembrava estasiato, come se gli avessero mostrato un prezioso capolavoro artistico. — Meraviglioso! — commentò. — Raramente ho incontrato un simbolo così perfetto degli oscuri istinti sessuali della nostra società. Un satiro, o meglio una satiressa, pronta a dispensare amore e insieme a calpestare selvaggiamente. Mary ne sarebbe affascinata, ne sono sicuro, e insisterebbe per farne una delle sue bambole. — Sospirò, poi si riscosse dal suo rapimento estetico. — Naturalmente, Phil, non posso aspettarmi ora come ora che siate interessato al lato artistico della vostra attività inconscia. Voi volete sapere le cause, le origini. Ditemi, avete mai visto un cavallo?

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