Comunque, nel rimettere in tasca il binocolo, si decise. Sarebbe andato a Corona Heights. Era una giornata troppo bella per rimanere chiuso in casa.
— Se non vuoi venire da me, allora verrò io da te — disse a voce alta, citando un brano di una storia di fantasmi di Montague Rhodes James e riferendo le parole, in tono scherzoso, sia a Corona Heights sia al suo misterioso abitatore. Era stata la montagna ad andare da Maometto, rifletté, ma lui aveva a disposizione tutti quei geni della lampada…
Un’ora più tardi, Franz saliva lungo Beaver Street e respirava profondamente per non dover avere, in seguito, il fiato corto. Aveva aggiunto a I segreti del sovrannaturale la frase sul Tempo che si schiariva la gola, aveva infilato il manoscritto nella busta e l’aveva spedito. Nell’uscire, si era messo il binocolo al collo, con l’apposita cinghia, come il protagonista di un romanzo d’avventura, e Dorotea Luque, che, nell’androne, stava aspettando il postino in compagnia di un paio di inquilini attempati, aveva chiesto allegramente: «Va a cercare qualcosa di spaventoso per scriverci poi le storie, eh?» E lui aveva risposto: « Sì, señora Luque. Espectros y fantasmas » in quello che gli sembrava un’accettabile parodia dello spagnolo. Poi, dopo avere percorso un paio di isolati e dopo essere sceso dal tram sulla Market Street, si era di nuovo messo in tasca il binocolo, insieme con la guida stradale che si era portato dietro. Sembrava un quartiere abbastanza tranquillo, ma era inutile sfoggiare troppo la propria ricchezza, e lui pensava che un binocolo fosse ancor più appariscente di una macchina fotografica. Peccato che le grandi città fossero diventate luoghi pericolosi, o godessero fama di esserlo. Prima, aveva quasi rimproverato Cal perché si preoccupava di rapinatori e pazzoidi, e adesso era lui a temerli. Comunque, era soddisfatto di essere partito da solo. L’esplorazione dei luoghi che in precedenza aveva studiato alla finestra era una nuova fase naturale del suo ritorno alla realtà, ma era una fase molto personale.
C’era relativamente poca gente per la strada, quella mattina. In quel momento non si vedeva nessuno. La sua mente si gingillò per qualche tempo con l’idea di una grande città moderna, divenuta all’improvviso completamente deserta, come la nave Marie Celeste o come l’albergo di lusso di quel film acuto e inquietante che era L’anno scorso a Marienbad.
Passò davanti alla casa di Jaime Donaldus Byers, una stretta costruzione di legno in stile gotico, ora verniciata in color oliva e oro, che faceva molto “vecchia San Francisco”. Forse poteva suonare il campanello, si disse, ma al ritorno.
Da quella zona non si scorgeva più Corona Heights. Era nascosta dagli edifici adiacenti (così come era nascosta la torre della TV). Mentre in lontananza la collina era quanto mai visibile (aveva potuto vedere bene il suo profilo dall’incrocio tra la Market e la Duboce Street) al suo avvicinarsi si era nascosta come una tigre di colore bruno chiaro, tanto che lui era stato costretto a prendere la cartina e ad aprirla per assicurarsi di non avere sbagliato direzione.
Dopo Castro, la strada diventò piuttosto ripida, e Franz si dovette fermare due volte a riprendere fiato.
Alla fine arrivò in una breve stradina trasversale senza sbocco, posta dietro un nuovo palazzo di appartamenti. In fondo era parcheggiata una berlina con due persone sul sedile anteriore… Poi Franz si accorse di avere scambiato per due teste i poggiatesta. Sembravano due pietre tombali, piccole e scure!
Dall’altra parte della strada, non si vedevano edifici, ma solo argini di sbancamento, verdi e marrone, che salivano a formare una cresta irregolare sullo sfondo del cielo azzurro. Capì di avere raggiunto Corona Heights, ma sul lato opposto a quello visibile da casa sua.
Dopo avere fumato tranquillamente una sigaretta, oltrepassò alcuni campi da tennis e alcuni prati, e s’incamminò lungo una rampa stretta e tortuosa, chiusa tra reticolati, e arrivò in un’altra strada cieca. Si voltò verso la direzione da cui era giunto, e scorse la torre della TV, enorme (e più bella che mai) a meno di un chilometro di distanza, eppure, chissà come, con le dimensioni giuste. Dopo un istante, si rese conto che adesso aveva le stesse dimensioni di quando la guardava al binocolo dal suo appartamento.
Si avviò verso la fine della strada e passò davanti a un lungo edificio di mattoni di un solo piano, che si presentava modestamente come Museo Josephine Randall Junior. C’era un camioncino con la scritta (di esecuzione piuttosto dilettantesca) “Sidewalk Astronomer”. Ricordò di averne sentito parlare da Bonita, la figlia della signora Luque: era il posto dove i bambini portavano gli scoiattoli addomesticati, i serpenti, i topi ballerini giapponesi e magari anche i pipistrelli da compagnia, quando per una ragione o per l’altra non erano più in grado di tenerli. E ricordò anche di avere visto, dalla finestra, il basso tetto dell’edificio.
Dove terminava la strada, c’era un breve sentiero che lo portò fino allo spartiacque della collina: giunto ad affacciarsi sull’altro versante, Franz scorse l’intera metà orientale di San Francisco, la baia, i due ponti.
Si oppose risolutamente alla tentazione di fermarsi a osservare tutto minuziosamente e si avviò verso la cima, percorrendo il faticoso sentiero coperto di ghiaia. Ben presto, però, cominciò a sentire la stanchezza. Dovette fermarsi varie volte per riprendere fiato, e posare saldamente i piedi a terra per non scivolare.
Quando ebbe quasi raggiunto il punto dove aveva visto per la prima volta i due escursionisti, si accorse all’improvviso di essere in preda a un’apprensione puerile. Quasi si pentiva di non avere portato con sé Saul o Gunnar, e rimpiangeva di non avere incontrato qualche altro escursionista serio e rispettabile, anche se vestito in modo sgargiante, o se rumoroso e chiacchierone. Al momento, avrebbe apprezzato perfino la compagnia di una radiolina portatile. Adesso prese a fermarsi non tanto per riprendere fiato, quanto per esaminare con cura ogni masso roccioso prima di girargli intorno, perché era convinto che se si fosse sporto troppo fiduciosamente a guardare quel che gli stava dietro, chissà quale faccia (o quale mostruosità priva di faccia) c’era il rischio che gli comparisse davanti.
Ma questo era davvero troppo puerile, si disse. Non era partito per conoscere il tizio sulla vetta e per capire che razza di mattoide fosse? Molto probabilmente si trattava di una persona mite, a giudicare dal vestito umile, dalla timidezza e dal desiderio di solitudine. Anche se ormai, probabilmente, se n’era già andato via.
Franz, comunque, continuò a studiare sistematicamente la zona, mentre saliva l’ultimo tratto del sentiero, che adesso era più dolce, fino alla cima.
Gli ultimi affioramenti di rocce (la Corona?) erano più vasti e più alti degli altri. Dopo avere atteso per qualche minuto (voleva cercare il percorso migliore, si disse), si arrampicò su tre cornicioni di roccia, ciascuno dei quali gli richiese di scavalcare un tratto piuttosto alto, e raggiunse la cima, dove poté fermarsi (con qualche attenzione, e piantando bene i piedi in terra, perché lassù il vento del Pacifico spirava forte), con tutta Corona Heights sotto di lui.
Fece lentamente un giro completo su se stesso, seguendo con lo sguardo l’orizzonte ma osservando minuziosamente tutti i massi rocciosi e tutti i pendii verdi e ocra che stavano sotto di lui, per familiarizzarsi con il nuovo ambiente e per accertarsi nello stesso tempo che su Corona Heights non ci fossero altre persone che lui.
Poi ridiscese di un paio di cornicioni e si accomodò su un sedile naturale di pietra rivolto a est, completamente al riparo dal vento. Si sentiva del tutto a suo agio e al sicuro in quel nido d’aquila, soprattutto con la presenza della grande torre della TV che s’innalzava dietro di lui come una dea protettrice. Mentre fumava tranquillamente un’altra sigaretta, esplorò a occhio nudo l’intera distesa della città e della baia, con le grandi navi che sembravano più piccole dei giocattoli, dal piccolo cuscino di fumo color verde chiaro sopra San José a sud fino alla piccola piramide indistinta di Mount Diablo alle spalle di Berkeley e, ancora più in là, a nord fino ai rossi piloni del Golden Gate e al monte Tamalpais dietro di esso. Era curioso constatare come si fossero spostati i punti di riferimento, adesso che li osservava dalla nuova posizione. In confronto alla prospettiva di cui godeva dal tetto, alcuni edifici del centro parevano essersi improvvisamente innalzati, mentre altri parevano volersi nascondere dietro i vicini.
Читать дальше