Ancora una sigaretta, poi prese il binocolo, si passò la cinghia attorno al collo e cominciò a studiare questo e quello. Adesso le immagini erano ferme, non come la mattina. Ridacchiando, Franz lesse alcuni grandi cartelli, a sud della Market Street, sull’Embarcadero della Mission: soprattutto pubblicità di sigarette, birra e vodka (con l’onnipresente Black Velvet!) e le insegne di alcuni grossi locali con cameriere topless, roba per turisti.
Quando ebbe esaminato le acque lucenti, color dell’acciaio, della baia interna ed ebbe seguito il ponte fino a Oakland, concentrò l’attenzione sugli edifici del centro e presto scoprì, con un certo stupore, che da lassù era difficile riconoscerli. La distanza e la prospettiva alteravano in modo sottile i colori e le disposizioni. Inoltre, i grattacieli moderni erano piuttosto anonimi, senza insegne e senza nomi, senza statue sulla cima e senza croci o galletti segnavento, senza facciate e cornicioni caratteristici, senza la minima decorazione architettonica: c’erano solo grandi lastre lisce di pietra o di cemento o di vetro che brillavano al sole o si scurivano nell’ombra. Potevano davvero essere le “pantagrueliche tombe e le mostruose bare verticali dell’umanità vivente, il fertile terreno di riproduzione delle peggiori entità paramentali” di cui farneticava nel suo libro il vecchio De Castries.
Dopo un altro breve studio a sette ingrandimenti, in cui riuscì finalmente a riconoscere un paio di quei grattacieli elusivi, Franz lasciò il binocolo e tirò fuori dall’altra tasca il panino di carne che si era preparato prima di uscire. Nel toglierlo dalla carta e nel mangiarlo lentamente, si disse che era proprio fortunato. Un anno prima era davvero ridotto male, ma adesso…
Udì uno scricchiolìo della ghiaia, poi un altro. Si guardò attorno, ma non vide niente. Non riuscì a capire da dove fossero giunti quei suoni. Il panino, nella sua bocca, divenne improvvisamente asciutto.
Con uno sforzo, inghiottì il boccone e continuò a mangiare, riprendendo il filo dei suoi pensieri. Sì, adesso aveva amici come Gunnar e Saul, e Cal, e stava molto meglio anche di salute, e soprattutto il lavoro andava bene, le sue belle storie (be’, per lui erano belle) e perfino l’orribile materiale per I segreti del sovrannaturale…
Un altro scricchiolìo, ancora più forte, e con quello una strana risata acuta. Franz irrigidì i muscoli e si guardò attorno, in fretta, senza più pensare al panino e al bilancio della sua vita.
La risata echeggiò di nuovo, salì fin quasi a diventare uno strillo, e dalle rocce giunsero di corsa, lungo il sentiero, due bambine vestite d’azzurro. Una afferrò l’altra e cominciarono a girare in tondo, lanciando strilli di gioia, in un turbinìo di braccia abbronzate e di capelli biondi.
Franz ebbe appena il tempo di pensare che quella scena smentiva tutti i timori di Cal (e i suoi) a proposito della zona adiacente alla collina, ma che comunque non gli sembrava giusto che i genitori lasciassero vagabondare in un luogo tanto isolato due bambine così piccole e graziose (non potevano avere più di sette o otto anni) quando dalle rocce uscì a grandi balzi un pelosissimo sanbernardo, che subito venne coinvolto nel girotondo delle bambine. Dopo qualche istante, però, tutt’e due corsero via lungo il sentiero da cui era giunto lo stesso Franz, e il loro grosso difensore le seguì da vicino. Non dovevano essersi accorte della presenza di Franz, oppure, come fanno spesso le bambine, avevano finto di non accorgersene. Franz sorrise, perché quell’episodio aveva rivelato in lui un residuo di nervosismo, precedentemente insospettato. Ora, il panino non sapeva più di secco.
Appallottolò la carta oleata e se la cacciò in tasca. Il sole stava già scendendo, e illuminava le pareti opposte a lui. Il viaggio e la scalata avevano richiesto più tempo del previsto, e lui era rimasto seduto laggiù più del preventivato. Come diceva l’epitaffio letto su una vecchia lapide da Dorothy Sayers e da lei definito il culmine del macabro? Ah, “È più tardi di quel che pensi”. Poco prima della guerra ne avevano perfino tratto una canzone alla moda: “Divertiti, divertiti, è più tardi di quel che pensi”. Una battuta che metteva i brividi. Ma lui aveva tutto il tempo che voleva.
Riprese il binocolo per osservare il tetto in stile medievaleggiante, bruno-verde, del Mark Hopkins Hotel, dove c’era il bar-ristorante Top of the Mark. La Grace Cathedral, in cima a Nob Hill, era nascosta dai grattacieli della collina, ma il cilindro in stile moderno della St Mary Cathedral spiccava sulla testé ribattezzata Cathedral Hill. Gli venne in mente un compito ovvio e piacevole: cercare il suo palazzo di sette piani. Dalla sua finestra si vedeva Corona Heights: ergo, da Corona Heights si doveva vedere la sua finestra… Senz’altro l’avrebbe trovata in una stretta fessura tra due grattacieli, si disse; però, in quel momento, il sole doveva penetrare nel varco e offrirgli una buona illuminazione.
Con un certo dispiacere capì subito che l’impresa era più ardua del previsto. Visti da lassù, gli edifici più bassi sembravano solo più un mare inesplorato di tetti, così appiattiti dalla prospettiva che era faticosissimo riconoscere le linee delle strade: come una scacchiera vista di coltello. Il compito di trovare le vie lo assorbì a tal punto da fargli dimenticare ciò che gli stava attorno. Se in quel momento le bambine fossero ritornate e si fossero fermate a guardarlo, probabilmente lui non se ne sarebbe neppure accorto. Eppure, lo sciocco problemino che si era proposto di risolvere era così sfuggente che Franz, più di una volta, fu tentato di rinunciare.
Davvero, i tetti di una città erano un mondo scuro e sconosciuto, a sé stante, insospettato dalle miriadi di cittadini che vi abitavano, e anch’esso senza dubbio dotato dei suoi abitanti, dei suoi spettri e delle sue “entità paramentali”.
Comunque, Franz accettò la sfida e, con l’aiuto di due serbatoi dell’acqua ben riconoscibili, situati sui tetti accanto al suo, e di un’insegna, BEDFORD HOTEL, dipinta a grandi lettere nere, molto in alto, sul muro laterale di un edificio a lui noto, riuscì finalmente a trovare la sua casa.
Per qualche istante rimase totalmente assorto in quel lavoro.
Ecco laggiù la fenditura! Ed ecco la sua finestra, la seconda dall’alto, molto piccola ma nitida nella luce del sole. Una vera fortuna, riconoscerla proprio in quel momento, perché le ombre, spostandosi sul muro, entro breve tempo l’avrebbero nascosta.
E poi, all’improvviso, le mani gli tremarono, a tal punto che gli sfuggì il binocolo. Solo la cinghia gli impedì di cadere sulle rocce.
Una figura bruna, pallida, si sporgeva dalla sua finestra e agitava il braccio per salutarlo.
Gli vennero in mente due versi di una vecchia filastrocca popolare, quella che comincia:
Taffy era un gallese, Taffy era un gran mariolo.
Venne a casa mia, rubò la carne dal paiolo.
Ma quelli che gli vennero in mente erano gli ultimi versi:
Andai a casa sua, Taffy non l’ho trovato.
Taffy era da me e l’osso del brodo aveva rubato.
Adesso, per l’amor di Dio, non farti prendere dal panico, si disse, riprendendo il binocolo e portandoselo di nuovo agli occhi. E smettila di ansimare così, non hai mica corso.
Gli occorse qualche tempo per trovare di nuovo l’edificio e l’apertura tra i grattacieli (maledetto mare di tetti!) ma, quando riuscì di nuovo a vederli, la figura era ancora alla finestra. Aveva un colore bruno pallido, il colore delle vecchie ossa (via, adesso non diventare morboso!). Potevano essere le tende, si disse poi, agitate da un soffio di vento: ricordava di avere lasciato la finestra aperta. Dove c’erano edifici così alti, le correnti d’aria assumevano forme capricciose. Lui aveva le tende verdi, naturalmente, ma gli orli avevano lo stesso colore indefinito dell’apparizione alla finestra. E la figura, a guardarla adesso, non lo stava affatto salutando (la sua danza era dovuta unicamente al binocolo) ma piuttosto pareva guardarlo pensierosa, come per dirgli: “Sei voluto venire a visitare casa mia, signor Westen, e perciò io ho deciso di approfittare dell’occasione per dare con calma un’occhiatina alla tua”.
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