Il telefono squillò. Era il portiere, tutto agitato, incoerente, che balbettava delle frasi incomprensibili in cui si capivano soltanto le parole “polizia” e “buttarvi fuori”. Per calmarlo Norman gli propose di scendere subito.
Il vecchio lo aspettava ai piedi della scala.
«Senta, signora» cominciò alzando un dito minaccioso. «Io voglio sapere cosa sta succedendo. Sissy è scesa ora dalla sua stanza, bianca come un panno lavato. Non mi ha voluto dir niente, ma tremava come una foglia. Sissy è mia nipote, le ho fatto avere io quel posto di cameriera, e sono responsabile di ciò che le può accadere. So cosa sono gli alberghi. Vi ho lavorato tutta la vita. E so che razza di gente ospitano. Talvolta le donne collaborano con gli uomini, e so che cosa tentano di fare alle ragazze. Io non ho niente contro di lei, signore ma è strana la maniera in cui sua moglie è arrivata qui. Quando mi ha detto di chiamare Sissy io ho pensato che stesse male, o qualcosa del genere. Ma se sta male perché non chiama un medico? E che cosa fanno loro due, svegli alle quattro del mattino? La signora Thompson, che ha la stanza accanto, mi ha chiamato per dire che in camera sua non si faceva altro che parlare, non ad alta voce, ma in maniera che a lei faceva paura. Ho il diritto di sapere che cosa sta succedendo.» Norman assunse il suo tono più distinto di professore e calmò a una a una le apprensioni del vecchio portiere, finché gli sembrarono inconsistenti. Tutto con molta dignità. Dopo un ultimo borbottio, il vecchio si lasciò convincere. Mentre Norman risaliva le scale, lui tornò ciabattando al suo centralino.
Arrivato al secondo piano, Norman udì lo squillo del telefono. Mentre percorrevano il corridoio lo squillo cessò. Norman aprì la porta. Tansy era in piedi vicino al letto, parlava al telefono. La macchia scura del telefono, che le attraversava il viso dall’orecchio alla bocca, intensificava il pallore delle guance e delle labbra, e il biancore degli asciugamani.
«Qui parla Tansy Saylor» diceva con una voce priva di modulazioni. «Voglio la mia anima.» Un silenzio «Non mi senti, Evelyn? Sono Tansy Saylor. Voglio la mia anima.»
Norman aveva completamente dimenticato la prenotazione telefonica, fatta in un attimo di disperata collera. Non sapeva più ora, cos’era che aveva pensato di dirle.
Un gemito prolungato uscì dal telefono. Tansy continuava lo stesso a parlare.
«Qui parla Tansy Saylor. Voglio la mia anima.»
Norman fece un passo avanti. Il gemito era diventato un urlo. Ma insieme a quello, si sentiva un intermittente ansare. Tentò di afferrare il telefono, ma in quel momento Tansy si voltò di colpo e qualcosa accadde allo stesso microfono.
Quando un oggetto inanimato si comporta come se avesse una vita propria, si pensa naturalmente alla possibilità di un’illusione ottica o altro. Vi è un modo, ad esempio, di maneggiare una matita che dà illusione di piegarla avanti e indietro come se fosse di gomma. E Tansy aveva la mano sul telefono, e l’agitava così rapidamente che diventava difficile essere certo di qualsiasi cosa. Comunque a Norman parve che il telefono diventasse improvvisamente pieghevole e si contorcesse come una serpe, penetrasse nella guancia di Tansy e nel collo, proprio sotto l’orecchio come una doppia zampa nera. Insieme all’urlo gli parve di udire un rumore attutito di risucchio…
La sua reazione fu immediata, involontaria e sbalorditiva. Cadde ginocchioni e strappò dal muro il cavo del telefono. Dal filo rotto uscivano scintille viola. L’estremità libera del cavo scattò all’indietro come una frusta, e parve ondulare un po’, poi si arrotolò intorno al braccio di Norman. Gli parve che per un attimo il cavo lo stringesse con forza, poi la stretta si allentò. Staccò il filo dal braccio con un terrore panico e si rimise in piedi.
Il telefono era caduto a terra. Aveva l’aspetto solito di un telefono. Gli diede un leggero calcio, udì un pluff e il telefono scivolò di pochi centimetri sul pavimento. Si chinò, esitò un attimo e lo toccò con riluttanza. Era duro e rigido come tutti i telefoni.
Guardò Tansy. Era in piedi nella stessa posizione di prima. Non c’era un atomo di paura nella sua espressione. Con l’indifferenza di una macchina aveva alzato una mano e si massaggiava lentamente la guancia e il collo. All’angolo del labbro apparivano alcune gocce di sangue.
Naturalmente poteva aver sbattuto il telefono sui denti ed essersi ferita il labbro.
Ma lui aveva visto…
Forse aveva scosso il telefono nella mano così rapidamente che gli era sembrato flessibile e piegato.
Ma non era un’apparenza… Ciò che aveva veduto era stato l’impossibile. Ma tante cose impossibili erano accadute.
Ed era stata proprio Evelyn Sawtelle all’altro capo del filo. Lui aveva sentito il rumore ampliato della raganella nel microfono. Nulla di sovrannaturale in questo. Se il disco della raganella fosse stato suonato a tutto volume nel telefono, lo si sarebbe sentito in quella maniera. Egli non si poteva ingannare su quel rumore. Era un fatto, e lui doveva attenersi ai fatti.
Gli forniva la scusa emotiva che gli occorreva. Ira. Egli era sbalordito dall’impeto d’odio che lo aveva pervaso al pensiero di quella donna dagli occhi spenti. Per un attimo si sentì nei panni dell’Iniquisitore davanti a una testimonianza irrefutabile di stregoneria. Visioni di tortura, la ruota, lo stivaletto, gli vennero in mente. Poi le reminiscenze medioevali svanirono e rimase l’ira che si andava trasformando in un deciso sentimento di odio.
Qualunque cosa fosse capitata a Tansy, sapeva che Evelyn Sawtelle, Hulda Gunnison e Flora Carr ne erano autrici. Aveva fin troppe certezze del loro agire. Quello era un fatto al quale doveva attenersi. Che avessero perseguitato la mente di Tansy per mezzo di una diabolica, subdola azione di suggestione o con l’aiuto di indefinibili, innominabili mezzi, non aveva importanza. Erano, tutt’e tre, responsabili del suo stato.
E non c’era alcun modo di accusarle, sia legalmente, sia per mezzo della psichiatria. Ciò che era accaduto nei pochi giorni precedenti, era qualcosa che lui solo, fra tutti gli uomini, era in grado di credere e comprendere. Egli stesso doveva combattere quelle tre arpie usando contro di loro le stesse armi, quelle innominabili stesse armi.
Doveva agire comunque come se credesse nelle virtù di questi innominabili mezzi.
Tansy smise di sfregarsi la guancia. La sua lingua sfiorò il labbro nel punto dove il sangue si stava asciugando.
«Andiamo a Hempnell, adesso?»
«Sì.»
Il ritmico dondolio del treno era come la ninna-nanna dell’Età della Macchina. Norman udiva russare la locomotiva. I campi verdi immensi, roventi, che sfilavano veloci nell’inquadratura del finestrino si assopivano nel sole di mezzogiorno. Le fattorie, le greggi, i cavalli che punteggiavano qua e là i campi si arrendevano al caldo. Anche a lui sarebbe piaciuto appisolarsi, ma sapeva di non potervi riuscire. In quanto a… lei, in apparenza non dormiva mai.
«Vorrei proprio riassumere una o due cose» le disse.» «Interrompimi se ti sembra che sbagli, o se non capisci.»
Con la coda dell’occhio osservò la figura seduta fra lui e il finestrino far cenno di sì col capo.
Norman si rimproverò la sua meschinità, quella sua facilità ad adattarsi a ogni situazione, che gli rendeva consueta perfino… la presenza di lei, tant’è che a distanza di solo un giorno e mezzo, egli era in grado di trattarla come una macchina pensante, e le chiedeva ricordi e reazioni nello stesso modo in cui si ordina a un inserviente di mettere un disco sul grammofono.
Allo stesso tempo sapeva che solo un severo dominio di sé, delle sue azioni e dei suoi pensieri gli permetteva di tollerare quel continuo, intimo contatto. Ad esempio, non la guardava mai in faccia. Lo confortava d’altra parte l’idea che la condizione di Tansy fosse passeggera. Guai se si lasciava andare un attimo a pensare a ciò che sarebbe stata la sua vita se avesse dovuto condividere letto e mensa con quel blocco di freddezza, con quella oscurità interiore, con quella vacuità…
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