La loro casa era più grande delle loro necessità, e il prato rasato, sulla facciata, le conferiva un aspetto protocollare; ma vi si vedevano molte macchie gialle, e i fiori allineati come soldatini apparivano trascurati.
«Aspettami qui» le disse. «Non uscire dalla macchina per nessun motivo.»
Con sua grande sorpresa, Hervey gli venne incontro sulla soglia. Aveva gli occhi cerchiati, lo sguardo preoccupato come sempre, e la sua agitazione era più visibile del solito.
«Son contento che tu sia venuto» gli disse facendolo entrare. «Non so più dove dar la testa, con tutte le responsabilità del reparto concentrate sulle mie spalle. Classi da licenziare, istruttori interinari da trovare, e il programma del prossimo anno scolastico da decidere entro domani. Vieni, andiamo nel mio studio.» Spinse Norman attraverso un enorme soggiorno arredato con mobili costosi ma freddi, fino al suo stanzino, una vera tana, trasandato, coperto di libri su tutte le pareti e con un solo, minuscolo finestrino.
«Mi viene quasi da impazzire. Non ho più osato mettere fuori il naso da quando Evelyn è stata aggredita, sabato notte.»
«Che cosa?»
«Non lo sapevi?» si fermò e guardò Norman sorpreso. Anche in quello stanzino Hervey tentava di camminare in su e in giù, sebbene non vi fosse spazio sufficiente. «Ma come? Era sui giornali. Mi meravigliavo che tu non fossi venuto o avessi telefonato. Non ho fatto altro che cercarti in casa e in studio. Ma nessuno sapeva dov’eri. Evelyn è a letto da domenica e strilla come un’ossessa se parlo di uscire di casa. In questo momento, per fortuna, dorme.»
Norman ripeté rapidamente la storia già predisposta. Voleva sentire cos’era successo a Evelyn domenica notte. Mentre raccontava con eccessiva naturalezza e noncuranza la sua bugia sull’intossicazione di Tansy, la sua mente correva a Bayport e alla chiamata telefonica fatta a Evelyn Sawtelle nella stessa notte. Solo che in quella occasione, gli era parso che Evelyn aggredisse, e non certo fosse aggredita. Ed era venuto ora per chiedergliene conto. Però…
«Sono proprio sfortunato» esclamò Sawtelle tragicamente, quando Norman ebbe terminato. «Tutto il mio reparto si sgretola nella prima settimana del mio incarico. Non dico che sia colpa tua, naturalmente. E il giovane Stackpoole è a letto con l’influenza!»
«Ce la faremo, vedrai» disse Norman. «Ora siedi e raccontami di Evelyn.»
A malavoglia Sawtelle sgomberò un angolo della scrivania per potersi sedere. Brontolò quando lo sguardo gli cadde su alcune carte presumibilmente urgenti.
«È successo alle quattro circa, all’alba di domenica» disse gingillandosi nervosamente con le carte. «Fui svegliato da un urlo atroce. Il letto di Evelyn era vuoto. Il corridoio era buio. Ma udii a pianterreno qualcosa di simile a una lotta: tonfi, percosse.»
Improvvisamente Hervey alzò il capo: «Cos’è stato? Mi è parso di sentire dei passi nell’atrio?» Prima che Norman potesse intervenire, Hervey continuò il suo discorso. «Sono i miei poveri nervi. Mi giocano certi tiri, da quel giorno… Ti dicevo, presi in mano qualcosa, un vaso, credo, e scesi al pianterreno. In quel momento il rumore cessò. Accesi le luci e andai in tutte le stanze. Nella cameretta da cucire, trovai Evelyn distesa al suolo, svenuta, con alcuni brutti lividi che cominciavano a mostrarsi intorno al collo e alla bocca. In terra, davanti a lei, c’era il telefono. Lo teniamo in quella stanza perché Evelyn lo usa di continuo. Mi parve di impazzire. Chiamai un dottore e la polizia. Quando Evelyn rinvenì, fu in grado di dirci cos’era successo, sebbene fosse molto scossa. Le era sembrato di sentire squillare il telefono. Era scesa nel buio senza svegliarmi. Mentre alzava il microfono, un uomo nascosto in un angolo era balzato su di lei e l’aveva aggredita. Lei si era difesa con tutte le sue forze… impazzisco a pensarci!… ma era più robusto di lei, e quasi la strozzò facendola svenire.»
Nella sua agitazione Sawtelle aveva gualcito il foglio di carta che aveva in mano. Se ne accorse e subito si mise a stenderlo e a stirarlo.
«Per fortuna ero sceso in quel momento! Penso che sia stato quello a farlo scappare. Il dottore mi disse che tranne i lividi, Evelyn non presentava altre lesioni. Ma anche il dottore era allarmato alla vista di quei lividi. Ha detto che non ne aveva mai visto di simili.
“La polizia suppone che il ladro, dopo essersi introdotto in casa, abbia chiamato il centralino locale e chiesto di richiamarlo col pretesto che questo numero non funzionava bene; lo squillo del telefono avrebbe quindi attratto qualcuno al piano di sotto. Non si capisce come abbia fatto a entrare, perché la porta e le finestre erano perfettamente chiuse. Forse mi ero dimenticato di chiudere la porta d’ingresso, prima di andare a letto. Una imperdonabile dimenticanza.
“La polizia ritiene trattarsi di un ladro o di un maniaco sessuale: ma io credo sia stato anche pazzo, perché sul pavimento vi era un piatto d’argento e inoltre due delle nostre forchette d’argento si sono intrecciate in modo molto strano, e altre cose inconsuete sono accadute. Oltretutto deve aver suonato il grammofono, perché il piatto del disco girava ancora, e sul pavimento vi era uno dei dischi di recitazione di Evelyn rotto in mille pezzi.»
Norman spalancò tanto d’occhi e guardò il suo capo reparto sociologia; ma dietro quello sguardo innocente si faceva strada la conferma effettiva di aver sentito la raganella nel telefono, a Bayport (e che altro poteva essere quel disco in frantumi?), e che Evelyn Sawtelle si serviva della magia né più né meno di come aveva fatto Tansy; altrimenti come avrebbe potuto avere tutto sottomano? Ma i suoi pensieri si precipitavano su ciò che Sawtelle aveva detto delle lesioni di sua moglie, di quei lividi che parevano identici a quelli che Tansy si era fatta col telefono… o che le aveva fatto il telefono. Gli stessi lividi, gli stessi strumenti, suggerivano un mondo oscuro in cui la magia nera veniva ostacolata, si ritorceva sul mittente, nel quale l’intenzione di terrorizzare con una pretesa magia nera colpiva di ritorno la mente colpevole e psicopatica che l’aveva ideata.
«È tutta colpa mia» ripeteva Sawtelle, dolente, tirandosi la cravatta. Norman ricordò che Sawtelle si sentiva colpevole ogni volta che qualcosa colpiva o soltanto sconvolgeva Evelyn. «Mi sarei dovuto svegliare. Dovevo andare io al telefono. Quando penso a quella fragile creatura, che scendeva a tastoni per la scala senza sapere di aver davanti a sé… Ah!… E il mio nuovo incarico! Ti dico io che mi sento impazzire. La povera Evelyn è in uno stato così pietoso, da quando è successo, che tu non lo crederesti neanche vedendola.» E tirò il nodo della cravatta così nervosamente che si strozzò quasi e dovette allentarlo subito.
«Se ti dico che non ha chiuso occhio!» continuò, quando gli tornò il fiato. «Se la signora Gunnison non fosse stata così gentile da stare un paio d’ore con Evelyn, ieri mattina, non so cos’avrei fatto. Anche lei presente, Evelyn aveva ancora tanta paura che non mi lasciava fare un passo. Dio mio! Evelyn!!!»
Norman non poté identificare l’urlo inumano, e dubitò che Sawtelle lo potesse, tranne che quell’urlo proveniva dal primo piano della casa. Gridando: «Lo sapevo io di avere udito dei passi… È tornato!» Sawtelle corse come un fulmine fuori dallo studio. Norman lo seguì, ma con ben diversa paura addosso, paura che gli fu confermata da un rapido sguardo fuori dalla finestra: la sua macchina era vuota.
Sorpassò Sawtelle per le scale e fu il primo a raggiungere la porta della camera da letto. Si fermò di botto e Sawtelle gli cadde quasi addosso.
Non era successo nulla di ciò che Norman temeva. Avviluppata e ben stretta nella trapunta rosa, Evelyn Sawtelle si era spinta in fondo al letto, contro la parete: i denti le battevano, il suo viso era di un pallore gessoso.
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