Jeanne Kalogridis - Il Signore dei Vampiri

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Il Signore dei Vampiri
Diari della famiglia Dracula
Il patto con il Vampiro
I figli del Vampiro
Dracula
In questo libro conclusivo della sensualissima trilogia
, Jeanne Kalogridis fonde brillantemente la sua appassionante storia della famiglia Tsepesh con quella narrata da Stoker, rivelando i retroscena del grande classico.

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Prima che Madam Mina avesse finito la sua terribile storia, si stava facendo l’alba. Tutti fummo d’accordo per vestirci e incontrarci dopo poco, onde discutere di ciò che doveva essere fatto.

Prima, naturalmente, John e io andammo ancora a controllare Renfield: era morto, pover’uomo! Pazzo o no, è morto coraggiosamente e per amore di Madam Mina, e per questo io onorerò sempre la sua memoria.

Premetti quindi il talismano della finestra nella sua mano fredda e recitai silenziosamente una preghiera per i defunti.

Quando fummo tutti vestiti e riuniti, il nostro piano divenne chiaro. Andremo in ognuno dei quattro luoghi: a Carfax, dove si trovano ventinove casse; a Mile End e a Bermondsey, che ne contengono sei, e a Piccadilly, dove ce ne sono nove. Le sigilleremo tutte con l’ostia e così provocheremo un confronto tra noi e il Vampiro. Spero nella vittoria ma, anche se l’Impalatore soccomberà, dovremo poi affrontare un nemico ancora più potente…

Capitolo sedicesimo

Il diario di Abraham Van Helsing

3 ottobre, notte. Debbo continuare con l’avventura di oggi. Ce ne eravamo andati alle sei e mezzo del mattino per incontrarci a colazione, essendo stato deciso che tutti avevamo bisogno di un nutrimento sostanzioso per gli eventi del giorno. Così ci affollammo nella sala da pranzo e facemmo colazione con focacce, salsicce e tè.

Sebbene tutti si sentissero esausti e prostrati, lavorammo sodo per mantenere una parvenza di buonumore; Mina era allegra e sorridente come sempre, e Arthur e Quincey scherzarono un po’ con lei e la fecero ridere. Io bevvi del caffè, come un bravo olandese, e sorrisi meglio che potei mentre sorseggiavo dalla mia tazza, guardandoli. Jonathan era quello che, chiaramente, incontrava più difficoltà. Di tanto in tanto, rivolgeva lo sguardo sulla sua affascinante moglie, con gli occhi pieni di lacrime, e distoglieva lo sguardo rapidamente, per timore che lei vedesse la sua preoccupazione e si perdesse di coraggio.

Nel mezzo di tutto ciò, mentre gli altri erano distratti dalla briosa conversazione, il campanello della porta suonò. Un minuto dopo, la governante mi venne vicino e mi disse piano:

«Dottor Van Helsing? C’è una signora alla porta che desidera parlare con voi».

Questo tranquillo annuncio mi lasciò — e insieme a me John, che mi sedeva accanto — sbalordito. Ci scambiammo uno sguardo profondo. Chi altri poteva sapere che ero lì? Tastai il talismano nella mia tasca mentre mi alzavo, chiedendomi se era qualche trucco di Vlad… o se era Frau Koehler che era venuta per annunciare la morte di mamma di persona, invece che mandare un telegramma.

Me ne andai e John mi seguì in silenzio. Gli altri stavano conversando, e Mina rideva con falsa gioia per qualcosa che aveva detto Quincey.

Comunque, prima che raggiungessi l’ingresso, John mi aveva sorpassato, affiancandosi alla governante, che lo rassicurò:

«Stanno aspettando fuori, dottore; so che mi avete chiesto di non lasciare entrare nessuno senza il vostro permesso…».

Quando John aprì la porta appena di un dito se ne andò. Da dove mi trovavo, non potevo vedere oltre lui, ma il suo profilo era facilmente visibile; il movimento dei suoi occhi rivelò che vi era una persona nel portico e un’altra che stava leggermente dietro. Apparentemente non le conosceva, poiché domandò con aria severa:

«Sono il dottor Seward. Posso fare qualcosa per voi?».

Prima udii una voce lontana, stranamente familiare… quella di una signora, con un accento vagamente slavo ma con un’eccellente padronanza dell’inglese:

«Ve ne prego, dottore, ma prima permettetemi di dire che vedervi è per me un piacere maggiore di quanto pensiate. Ho sentito parlare di voi da… fonti indirette».

John alzò la testa confuso e sorpreso, e i suoi occhi si socchiusero in quel particolare modo che sta a indicare che si è incerti se credere a ciò che si è visto.

La signora continuò, con una voce che adesso mi era assai familiare ma era in parte cambiata, al punto che non riuscivo a riconoscerla.

«Desidero parlare con Abraham Van Helsing al più presto. Ditegli che ho informazioni che lo possono aiutare nella sua… ricerca».

Allora mi feci spazio accanto a John, incapace di stare ancora fermo.

«Sono io Abraham Van Helsing».

Nell’ingresso c’era una donna: non era bella, ma piacevole in un modo severo, e pallida, con mento e naso forti e appuntiti, e zigomi alti e sporgenti. I suoi capelli neri striati d’argento erano raccolti strettamente in una folta crocchia alla base del collo, senza pretese di moda o arzigogoli. Era vestita con un semplice vestito nero — contro il quale stringeva un magro e alto cane bianco — e portava un velo, che si era tirata indietro per parlare. Sotto folte sopracciglia nere, i suoi occhi castani erano malinconici, afflitti e, quando mi vide, si illuminarono un po’ ma non sorrise.

A parecchi piedi di distanza c’era un uomo, anche lui vestito a lutto. Con la coda dell’occhio notai la sua presenza, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dal viso della donna poiché la conoscevo… e allo stesso tempo non la conoscevo.

La sua aura non era forte, appena normale; stranamente, mentre si avvicinava alla sfumatura indaco del Vampiro (sebbene non così scura da andare oltre un profondissimo blu), era macchiettata con l’oro del progresso spirituale. Riuscii solo a pensare ad un cielo blu scuro punteggiato di stelle.

Se John aveva visto questo, aveva buone ragioni per essere confuso.

«Bram», disse con gentilezza, «so che sei mio nipote, Stefan George Tsepesh. Io sono Zsuzsanna Tsepesh. Sono venuta a chiedere il tuo perdono e ad offrirti il mio aiuto».

Per alcuni secondi non riuscii a parlare: potevo soltanto fissarla con le labbra aperte per lo stupore. Perché quella signora era Zsuzsanna, colei che aveva corrotto il mio piccolo Jan, la tormentatrice della mia povera Gerda… ma una Zsuzsanna senza alcuna traccia di fascino vampiresco, una Zsuzsanna che non faceva alcun tentativo di ipnotizzarci.

Esitai sulla soglia; la sua sincerità sembrava genuina, ma invitarla dentro casa poteva significare il disastro per tutti… specialmente se lei aveva rubato il manoscritto.

«Hai veramente bisogno del mio perdono», dissi con amarezza. «Ma non sono sicuro di potertelo dare; a causa tua, il mio figliolo è morto, e mia moglie è irrecuperabilmente pazza».

Quel ricordo evocò un odio implacabile dentro di me e il desiderio di essere crudele; sollevai il talismano che avevo preso dalla tasca, e lo tenni all’altezza del petto.

I suoi occhi si strinsero per il dolore e si irrigidì, ma non fece alcun movimento per scappare o per colpirmi; invece, rimase dov’era. Non sapevo cosa fare perché, più la guardavo, più il dolore e la rabbia mi sopraffacevano. Desideravo solo chiudere la porta e dimenticare il suo viso prima possibile, e mi mossi per fare proprio così. Ma, prima che ci riuscissi, l’uomo dietro di lei gridò:

«Bram! Aspetta!».

E Arkady salì le scale e si fermò accanto a lei; una sola lacrima illuminata dal sole le brillò sulle guance quando lui le circondò le spalle con un braccio consolatore.

«Figlio mio», disse gentilmente, «con le tue armi — indicò con il capo la croce nelle mie mani — ci crei un terribile disagio. Sai che non ti farei mai del male, per cui ora ti chiedo: l’ascolterai?».

In risposta guardai intensamente John. Lui fissava i due con un’espressione profondamente perplessa, poi guardò nuovamente me e chiese:

«Lui è veramente tuo padre?»

«Lo è», risposi, e Arkady sorrise a suo nipote, dicendo:

«E tu sei John. Ti ho visto la notte scorsa a Carfax; tuo padre mi ti ha indicato. Il mio nome è Arkady ma, per favore, chiamami come desideri».

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