Prima che arrivasse, l’assistente entrò di corsa per dire a John che Renfield supplicava per vedere qualcuno. Aggrottai la fronte, pensando che quella era chiaramente la conseguenza del fatto che Dracula interferiva con i nostri piani: John colse il mio sguardo, e cominciò a dire al giovanotto che Renfield avrebbe dovuto aspettare. Ma l’assistente insistette:
«È più disperato di quanto l’abbia mai visto, signore e, se non venite, sarà preso da uno dei suoi violenti attacchi».
Così John si avviò, e io, Quincey e Arthur, ci unimmo a lui. Con sorpresa di tutti, Mr. Renfield sembrava non solo in sé ma assolutamente elegante, e parlava in modo molto persuasivo dicendo che era finalmente rinsavito, e supplicava di lasciarlo andare. Onestamente, a tutti noi sembrò savio e molto sincero, ma John, che ha trattato a lungo con i pazzi, decise di tenerlo in osservazione per un periodo più lungo e io, naturalmente, non gli davo alcuna fiducia e attribuivo la sua disperazione all’influenza di Dracula… e al fatto che il talismano più forte stava effettivamente avendo la meglio. Perché avremmo dovuto liberarlo se poteva essere usato contro di noi?
Quando ce ne andammo, la nuova compostezza di Mr. Renfield per la maggior parte scomparve, e lui cominciò a piangere pietosamente per essere liberato.
Prima delle cinque eravamo alla porta della vecchia proprietà di Carfax, ognuno di noi con una piccola lampada elettrica appesa al petto e indossando uno dei crocifissi di Arminius, tranne Mr. Harker che aveva il suo. E tutti noi — eccetto Harker, del quale tutti noi eravamo riluttanti ad avere fiducia — portavamo in tasca dei pezzi dell’ostia consacrata di Arminius allo scopo di rendere le casse inabitabili per il nostro nemico (in questo modo, anche se Dracula era a conoscenza dei pensieri di Jonathan, non sarebbe stato avvertito in anticipo delle nostre reali intenzioni).
Inoltre, Arthur portava un fischietto d’argento intorno al collo per chiamare in aiuto i cani, se ce ne fosse stato bisogno, poiché nessuno di noi aveva dubbi che quel vecchio edificio fosse pieno di topi.
John utilizzò la sua abilità chirurgica e un vecchio grimaldello per farci entrare dall’entrata principale e noi ci muovemmo rapidamente all’interno: ben presto scoprimmo su un tavolo nel corridoio un anello con delle chiavi. Le diedi a Jonathan, e lo pregai di condurci nella cappella, poiché lui conosceva abbastanza la casa per trovare la strada.
Nella mia vita, non ho mai visto tanta polvere raccolta in un solo posto; infatti, il pavimento era sepolto sotto un tappeto di polvere e sporcizia spesso parecchi pollici, così che non sapevo dire se stavo camminando sulla terra, sulla pietra o sul legno.
Nonostante il nostro desiderio di essere il più silenziosi possibile per timore che l’Impalatore potesse abbandonare la sua caccia presto, sia Arthur che John scoppiarono in un attacco di tosse per le nuvole di polvere alzate dai nostri passi che ci solleticavano la gola. Anche le pareti erano coperte da uno strato grigio e ornate di fitte e antiche ragnatele, molte delle quali pendevano e oscillavano languidamente dietro di noi, rotte dal peso della polvere che vi si era raccolta.
Ero sicuro che l’Impalatore se ne fosse andato, poiché la sua aura era diventata, di recente, così intensa e grande che l’avrei sentita molto vicino all’entrata. Quest’idea si rafforzò quando arrivammo alla porta di legno ad arco che conduceva alla cappella.
Dopo qualche tentativo inutile, Jonathan trovò la chiave giusta e aprì la porta.
Quando fu spalancata, il puzzo orribile della tana del Vampiro uscì fuori. Dopo tanti anni io ero avvezzo ad esso ed entrai subito, ma gli altri, dietro di me, non se l’erano aspettato, e ne furono sconvolti. Nondimeno, si sforzarono di seguirmi.
All’interno si trovava una pietosa rovina di quello che un tempo era stato un luogo di culto vasto e alto: c’erano alcune travi di legno marcio di quelli che, allora, erano stati i banchi e l’altare e, sul muro sudicio, sotto un velo di ragnatele, il contorno di ciò che, una volta, era stata una croce. Doveva essere stato un bel luogo, poiché c’erano due grandi finestre ad arco — forse in origine di vetro colorato — ma da molto tempo coperte, come tutto il resto, dallo spesso strato di polvere.
La stanza parlava fortemente di oscurità, decadenza, precarietà. Questo era già abbastanza scoraggiante da vedere, ma molto peggio fu scoprire, dopo aver contato silenziosamente, che le casse di legno sistemate in file ordinate non erano cinquanta, ma ventinove.
Ne mancavano ventuno! Mi accostai a John e gli bisbigliai di dire rapidamente a Quincey e ad Arthur di non sigillare le casse con l’ostia. Farlo avrebbe soltanto messo in allarme, circa il nostro piano, il Vampiro, che così avrebbe potuto nascondere le altre casse in maniera più accorta. John riuscì a parlare agli altri due uomini mentre Harker era distratto nel contare e nel guardarsi intorno per trovare qualche altro posto in cui le casse potevano essere nascoste. Poi diedi istruzioni a tutti di guardare attraverso la sporcizia e la polvere e di cercare qualsiasi indizio che potesse condurci dove erano state spostate le altre casse; naturalmente, John sapeva bene che ciò aveva lo scopo di cercare tracce del manoscritto e della prima chiave.
Mentre noi tutti cercavamo, percepii un improvviso cambiamento nella stanza, uno scintillio di colore indaco che mi disturbò… ma che nello stesso tempo non mi infastidiva. Nello stesso istante, Arthur e Jonathan reagirono entrambi a qualcosa nell’ombra.
«Ho pensato di vedere un volto», disse Arthur per scusarsi.
Non dissi nulla, ma mi accucciai per aprire le casse e guardare tra la polvere e le ragnatele in cerca di qualsiasi indizio riguardo al manoscritto o alla chiave. Mentre così facevo, uno degli uomini si mosse e mi si mise vicino, in attesa di parlarmi di qualcosa… o così pensai poiché, con la coda dell’occhio, vidi un paio di pantaloni e di stivali.
Alzai lo sguardo, con la bocca aperta per chiedere: Sì? Ma la domanda mi morì sulle labbra quando i miei occhi si fissarono su un uomo alto vestito di nero, con lunghi capelli d’argento e neri, e dei baffi; un uomo — no, un Vampiro — la cui pelle brillava del bianco immortale, madreperlaceo, caratteristico di quelle creature.
Vlad , pensai, fissando l’intruso, ma non dissi nulla: la sorpresa mi aveva tolto la voce. Il disappunto mi inondò come il mare più amaro; così persino l’aiuto di Arminius non era servito a nulla. Se i suoi talismani non riuscivano nemmeno a scoraggiare il Vampiro nella sua tana, allora nessuno di noi era al sicuro, e la povera Madam Mina sola nel manicomio…
Ma, mentre lo fissavo, il mio sgomento cominciò a scemare, poiché gli occhi non erano del verde scuro di quelli dell’Impalatore ma nocciola e dolci, e il suo naso non era così aguzzo, né le labbra così crudeli. In effetti, il viso non mostrava né malvagità né dissoluta sensualità, ma gentilezza mescolata a gioia e a dolore.
«Mio Dio!», bisbigliai, inconsapevole di aver avuto l’intenzione di parlare; le parole sembravano uscire da me senza l’intervento del cervello, dei denti, della lingua o delle labbra. «Mio Dio…», ripetei.
Mi guardai intorno, e vidi gli altri occupati a darsi da fare, del tutto inconsapevoli dell’immortale che stava accanto a loro. Il Vampiro era invisibile, ma io non lo ero; quando si voltò e mi fece cenno di seguirlo dietro a un angolo, obbedii, facendo del mio meglio per fare finta che mi fosse appena venuto in mente un nuovo posto dove cercare.
Una volta che fummo entrambi al riparo dalla vista degli altri, mi aprì le sue braccia e ci abbracciammo.
«Brain, mi hai reso orgoglioso», bisbigliò nelle mie orecchie. «Molto orgoglioso…».
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