«Puoi almeno esaudire una richiesta?».
Sollevò le sopracciglia, così sottili e di un bianco traslucido che il rosa chiaro della sua pelle da bambino si mostrava sotto i peli.
Mi alzai e lo fissai, intento a convincerlo di quell’unica cosa.
«Terrai Miss Lucy nella sua tomba fino al mattino? Vlad non può più essere fermato con i talismani e li ha tolti in modo che non la potessimo distruggere».
Non disse nulla: mi fissò soltanto con quello sguardo meraviglioso e consapevole, poi si alzò con un movimento aggraziato per venirmi vicino. Mentre lo guardavo negli occhi, i contorni del suo corpo sembrarono diventare indistinti, poi scomparvero nelle ombre mentre la sfera di luce che ci conteneva all’improvviso si fece meno forte. Divenne sempre più fioca, finché mi trovai a fissare la grande porta di ferro della tomba delle Westenra.
Accanto a me, la malvagia creatura-Lucy sibilava, sputando bava sporca di sangue, nel cerchio di luce gettato dalla mia lanterna. Era a terra, dove l’avevo poggiata un’eternità — o solo minuti — prima. Sentii, piuttosto che vedere, i miei tre amici che stavano dietro a me in semicerchio; John, lo sapevo, era il più vicino, e teneva alto il suo crocifisso d’argento per tenere a bada il suo amore, una Morta Vivente.
Stranamente, l’improvviso cambiamento del tempo non mi disorientò; forse, il ricordo dell’insegnamento impartitomi da Arminius mi aveva preparato, poiché era un trucco che aveva spesso usato in quei giorni ormai lontani. La presi come una conferma silenziosa che avrebbe esaudito il mio unico desiderio, e cominciai subito a togliere i pezzi di mastice pieno di ostia dalla porta della tomba.
Quando ne ebbi tolto una quantità sufficiente, mi feci da parte e lasciai che la Vampira corresse senza alcun ostacolo dietro di me. Mentre gli altri trattenevano il respiro, lei si appiattì in due dimensioni, poi si ripiegò in una linea sottile come un ago, simile a una signora che piega un ventaglio. Quindi si mosse attraverso l’aria come un’anguilla che si muove nell’acqua, ma infinitamente più veloce; in meno di un batter d’occhi, era scomparsa in una crepa, sottile come un foglio di carta e non più larga del mio pollice.
Immediatamente rimisi il mastice nella fessura, sigillandola dentro. Poi mi voltai verso i miei amici: si trovavano tutti esattamente com’erano prima dell’apparizione dell’Impalatore, Arthur pallido e tremante alla vista della sua dolce Lucy così profanata, e Quincey con le labbra serrate e teso, mentre la sua grossa mano lentigginosa stringeva il braccio di Arthur per sostenerlo. Nessuno era minimamente sconvolto, come se l’attacco di Vlad non fosse mai accaduto, e il mio lavoro alla porta della tomba non fosse mai stato interrotto.
Come se Arminius non fosse mai apparso.
Nemmeno uno dei capelli di John era fuori posto, e la sua espressione era oscuramente tetra e turbata, così come si addiceva alla situazione. Ma, quando lo guardai, lui mi guardò in modo così intenso e intenzionale, e con una tale acuta confusione, da farmi comprendere che ricordava almeno in parte un po’ di quello che era accaduto.
Ma era evidente che per Arthur e Quincey non era così. Perciò feci un cenno con la testa ai miei compagni, presi la lanterna, e camminai fino al bambino che lei aveva lasciato cadere sotto gli alberi di tasso.
Era un piccolo ragazzino di strada, con i capelli dorati e il viso magro incrostati di sporcizia… e il collo, di sangue. Fortunatamente, avevamo incontrato Miss Lucy proprio mentre lei stava cominciando a bere, e così lui aveva ancora un po’ di colore sul suo faccino pallido. Era passato dalla trance a un sonno profondo sull’erba, e sarebbe morto in quel freddo intenso, poverino. Lo presi in braccio e dissi agli altri, che mi avevano seguito:
«Lasciamolo in qualche posto caldo dove la polizia lo possa trovare. Non è stato offeso gravemente e, prima di domani sera, starà del tutto bene».
Quindi andammo via. Arthur e Quincey si diressero al manicomio con John, e io invece feci finta di andare in albergo, poiché avevamo continuato a mentire sul fatto che alloggiavo altrove. Da lì ritornai invece a Purfleet, e strisciai nella mia solitaria cella sotto la protezione dell’invisibilità.
Il diario del dottor Seward
29 settembre, mattina. È una seccatura dover scrivere questo a mano, poiché richiede un mucchio di tempo e mi fa sentire come Neddy Ludd; avevo pensato di tenere una bobina separata con le mie registrazioni “private”, ma la possibilità che possa commettere uno sbaglio e far ascoltare alle orecchie sbagliate informazioni che esse dovrebbero non sapere, è troppo grande.
Eppure, stamattina devo sfogarmi, o diventerò pazzo come il povero Renfield. Troppe rivelazioni, troppe emozioni laceranti…
Era abbastanza, ieri notte, vedere la donna morta che io amavo trasformata in una diavolessa sbavante; quello solo era più di quanto qualsiasi uomo possa sopportare senza diventare pazzo. E poi, vedere lo stesso Vlad — molto più giovane e forte di quanto mi fosse stato descritto, fiammeggiante di malvagia gloria — spingere il mio amato professore verso la morte…
È più di quanto possa sopportare, eppure lo sopporto.
Ma, quando vidi la figura angelica che lo salvava a meno di mezzo secondo dalla morte, mi dissi: Ecco, Jack; dopo tutto questo tempo, hai infine raggiunto la follia totale. Che fortuna che la casa sia già un manicomio…
E li ascoltai che parlavano insieme come amici da lungo tempo perduti o, piuttosto, come insegnante e studente da lungo tempo lontani, con Van Helsing nel mio ruolo e l’angelo splendente nel suo. Oh, una cosa è leggere dell’occulto, giocare con le aure, discutere teorie di Vampiri e di altre entità incorporee, e come si possa venire a contatto con una, ma…
Bene, è completamente un’altra cosa vedere tali esseri e poi scoprire che il tempo si è interrotto e un fatto è stato cancellato. In questo caso è stato come se Vlad non fosse mai apparso e io e il professore non fossimo mai stati in pericolo: ancora peggio, quando finimmo al cimitero, seppi dalle espressioni e dai discorsi di Art e Quincey che loro non avevano visto quegli stessi impossibili eventi, come era accaduto a me. Fu un istante terribile poiché, per lo spazio di alcuni secondi, fui convinto che ero io a essere diventato completamente pazzo. Finché, cioè, guardai negli occhi il professore e vidi che anche lui sapeva.
Allora, era accaduto veramente! Fortunatamente, né Quincey né Arthur erano in vena di inutili chiacchiere dopo una serata tanto orribilmente dolorosa; dopo che li ebbi fatti sistemare dalla cameriera nella zona degli ospiti nella parte privata della casa, entrambi andarono direttamente nelle loro stanze.
Sebbene, intanto, fossero le tre del mattino, capii che il sonno sarebbe stato del tutto impossibile finché non avessi avuto delle risposte a delle domande sconvolgenti. Non avevo modo di sapere se il professore era ritornato, ma ero disperato; così, dopo un po’, quando fui certo che Art, Quincey e la cameriera si fossero messi a letto, andai di nascosto al manicomio e mi recai direttamente nella cella del professore. Bussai piano, chiamando:
«Sono John. Vi devo parlare».
La porta si aprì lentamente. Non riuscivo a vedere niente all’interno sebbene la lampada fosse accesa un po’, ma un soffice velo blu ondeggiava nell’aria proprio appena al di là della soglia.
Coraggiosamente, entrai e oltrepassai il luccicore ceruleo, per scoprire che la stanza era esattamente la stessa… tranne il fatto che il professore era seduto a gambe incrociate sul pavimento, senza scarpe.
Si era tolto gli occhiali e li teneva in grembo, tanto che i suoi profondi occhi blu sembravano, in un certo senso, nudi, e i capelli rosso oro che si ingrigivano erano scomposti, come se vi avesse passato le dita attraverso, in segno di preoccupazione. Al vedermi sospirò, si rimise gli occhiali e, con una voce stanca ma gentile, disse:
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