Scuotivento era incerto se osare; benché l’Incantesimo cercasse d’impadronirsi della sua lingua, lui si opponeva. — Hai detto che potevi leggere nella mia mente — borbottò. — Allora leggi.
Lei avanzò, fissandolo negli occhi con espressione beffarda. Il sorriso le si gelò sulle labbra. Sollevò le mani a proteggersi e indietreggiò, rannicchiandosi. Dalla gola le uscì un suono di vero e proprio terrore.
Scuotivento si guardò intorno. Anche le altre driadi arretravano. Che aveva dunque fatto? Evidentemente, qualcosa di terribile.
Ma, per sua esperienza, era soltanto questione di tempo prima che l’universo ritrovasse il suo equilibrio e a lui succedessero le solite cose tremende. Si trasse indietro, si riparò tra le driadi che con il loro ruotare creavano il cerchio magico, e attese di vedere quale sarebbe stata la prossima mossa di Druellae.
— Prendetelo — gridò lei. — Portatelo lontano dall’Albero e uccidetelo!
Scuotivento si girò e si precipitò in avanti.
Attraverso il centro del cerchio.
Vi fu un vivido lampo.
Vi fu il buio improvviso.
Vi fu un’ombra violetta vagamente rassomigliante a Scuotivento, che si ridusse a un punto e si spense.
Non vi fu assolutamente più nulla.
Hrun il Barbaro scivolava silenziosamente lungo i corridoi, illuminati da una luce di un viola così intenso da essere quasi nero. Non si sentiva più confuso. Chiaramente quello era un tempio magico, e ciò spiegava tutto.
Spiegava perché quello stesso pomeriggio, mentre cavalcava nella foresta oscura, avesse scorto sul bordo del sentiero una cassa dall’aspetto invitante: il coperchio aperto metteva in mostra una grande quantità d’oro. Ma quando lui era balzato giù da cavallo per avvicinarsi, alla cassa erano spuntate le gambe ed era trottata via per fermarsi qualche metro più in là.
Adesso, dopo parecchie ore d’irritante inseguimento, l’aveva persa in quei tunnel dalla luce infernale. Tutto sommato, le sculture sgradevoli e, di tanto in tanto, gli scheletri smembrati davanti ai quali Hrun passava, non gli incutevano nessun timore. Questo era in parte dovuto al fatto che lui non era eccezionalmente sveglio mentre era allo stesso tempo eccezionalmente privo di immaginazione. E in parte perché sculture strane e tunnel perigliosi rientravano nel suo lavoro quotidiano. Trascorreva gran parte del suo tempo in situazioni simili, a cercare oro o demoni o vergini in pericolo e a liberarli rispettivamente dei proprietari, della vita o di almeno una delle cause delle loro angustie.
Osserva Hrun, mentre attraversa con un balzo felino l’imbocco di un tunnel sospetto. Anche in questa luce viola la sua pelle riluce come rame. C’è parecchio oro sulla sua persona, sotto forma di anelli per i polsi e le caviglie, ma altrimenti l’eroe è nudo a eccezione di un perizoma di pelle di leopardo. L’ha presa nelle umide foreste di Howondaland, dopo avere ammazzato il suo proprietario con i denti.
Nella destra regge Kring, la magica spada nera che è stata forgiata da un fulmine e ha un’anima, ma non sopporta il fodero. Hrun l’aveva rubata tre giorni prima dall’inespugnabile palazzo dell’Archimandrita di B’Ituni, e già cominciava a rimpiangerlo. Gli dava sui nervi.
— Ti dico che è andata in quell’ultimo corridoio a destra — sibilò Kring con una voce simile al raschio di una lama sulla pietra.
— Taci!
— Ho detto soltanto che…
— Chiudi il becco!
E Duefiori…
Si era perso, lo sapeva. O l’edificio era molto più grande di quanto sembrava, o lui si trovava ora in un vasto sotterraneo senza avere disceso una scala oppure, come cominciava a sospettare, le dimensioni interne, più grandi delle esterne, disobbedivano a una regola base dell’architettura. E perché tutte quelle luci strane? Erano ottagoni di cristallo incastrati a intervalli regolari nelle pareti e nel soffitto e spargevano un chiarore sgradevole che metteva in risalto le ombre invece di illuminare.
E chiunque fosse l’autore delle sculture sulle pareti, pensava caritatevole Duefiori, probabilmente aveva bevuto troppo. Per anni.
D’altro canto, si trattava di sicuro di un edificio affascinante. I suoi costruttori erano stati ossessionati dal numero otto. Il pavimento era un mosaico di piastrelle ottagonali: i muri e i soffitti erano disposti in modo che, loro inclusi, i corridoi risultavano di otto lati; inoltre, là dove parte dell’intonaco era caduta, Duefiori notò che anche le pietre avevano otto lati.
— Non mi piace — sentenziò l’omuncolo dalla sua scatola intorno al collo di Duefiori.
— Perché no? — chiese questi.
— È strano.
— Ma tu sei un demone e i demoni non possono chiamare strane le cose. Voglio dire, che cos’è strano per un demone?
— Oh, sai — rispose cauto il diavoletto, guardandosi intorno nervosamente e spostandosi da una zampa artigliata all’altra. — Cose. Roba.
Duefiori gli dette un’occhiata severa. — Quali cose?
Il demone tossì nervosamente. (I demoni non respirano; tuttavia, ogni essere intelligente, che respiri o no, tossisce nervosamente una volta o l’altra nella vita. E, per quanto riguardava il demone, questa era appunto una di quelle volte.)
— Oh, cose — disse con aria infelice. — Cose malvage. Cose di cui non parliamo; è questo il punto che sto cercando di farvi capire, padrone.
Duefiori scosse stancamente la testa. — Vorrei che Scuotivento fosse qui. Lui saprebbe senz’altro cosa fare.
— Lui ? — disse sprezzante il demone. — Non riesco a vedere un mago venire qui. Loro non possono avere niente a che fare col numero otto. — Si tappò la bocca con una mano, con aria colpevole.
Duefiori alzò gli occhi al soffitto. — Che è stato? — chiese. — Non hai sentito qualcosa?
— Io? Sentito? No! Niente! — Saltò dentro e sbatté la porta. Duefiori bussò. Si aprì uno spiraglio.
— Sembrava una pietra che si muovesse — spiegò. La porta si richiuse di colpo. Duefiori alzò le spalle.
— Probabilmente questo posto sta crollando — disse a se stesso e si alzò. — Ehi! — gridò. — C’è qualcuno là?
LA, La, la, risposero i tunnel oscuri.
— Salve? — provò di nuovo.
VE, Ve, ve.
— So che qui c’è qualcuno, vi ho appena sentito giocare a dadi!
ADI, Adi, adi.
— Sentite, ho appena…
Duefiori s’interruppe. Il motivo era il punto di luce brillante che si era materializzato a qualche centimetro dai suoi occhi. Crebbe rapidamente e dopo pochi secondi si era trasformato nella minuscola silhouette di un uomo. Cominciò allora a fare un rumore o, piuttosto, Duefiori cominciò a udire il rumore che era andato facendo tutto il tempo. Era come la vibrazione di un grido, prolungata per un lungo istante.
L’uomo iridescente adesso aveva le dimensioni di una bambola, una forma distorta, che planava lenta, sospesa a mezz’aria. Duefiori si chiedeva perché mai gli era venuta in mente la frase "la vibrazione di un grido" e avrebbe voluto non averci pensato.
La sagoma intanto prendeva l’aspetto di Scuotivento. La bocca del mago era spalancata e il suo volto era illuminato dalla luce di… che cosa? Di strani soli, si ritrovò a pensare Duefiori. Soli che gli uomini normalmente non vedono. Rabbrividì.
Adesso il mago, sempre piroettante in aria, aveva raggiunto metà della dimensione normale. La crescita si fece più rapida, vi fu un momento di grande tensione, un soffio d’aria e un’esplosione di suono. Con un urlo, Scuotivento precipitò dall’aria. Batté violentemente a terra, si strozzò, poi rotolò su se stesso, la testa nascosta nelle braccia e il corpo tutto raggomitolato.
Quando la polvere si fu depositata, Duefiori allungò con precauzione una mano e batté sulla spalla del mago. La palla umana si raggomitolò ancora di più.
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