Terry Pratchett - Il colore della magia

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In un angolo remoto dell’universo in una piega isolata del tempo, esiste l’incredibile mondo Disco la cui forma è perfettamente conforme al proprio nome: è infatti un gigantesco disco che le più recenti teorie astronomiche in voga sul pianeta vogliono sorretto da quattro magici elefanti ritti in piedi sul dorso di una cosmica tartaruga (il cui sesso è tuttavia ancora ignoto). La superficie superiore di Disco ospita numerosi regni e varie razze di abitanti, ma la leggenda vuole che anche sul lato inferiore del pianeta esistano terre abitate, ovvero il mitico continente Contrappeso. La leggenda diventa realtà quando nella città di Ankh-Morpork arriva un inatteso visitatore dal continente misterioso: è l’ingenuo e ricchissimo Duefiori, sempre seguito fedelmente dal suo forziere ricco di tesori e di decine di zampette, e ben deciso a godersi una meritata vacanza in veste di turista. Ma fra i troll e i tagliagole che abbondano in città un ricco forestiero può avere vita breve, e un incidente diplomatico va evitato in ogni modo. Al mago Rincewind tocca dunque il compito dì guidare e proteggere l’incauto turista… un’impresa alquanto pericolosa, per non dire disperata.

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L’ometto si alzò e slegò dall’alberello a cui era legato il suo cavallo divenuto ormai docile. Non era sicuro da che parte si trovasse il Centro, però scorgeva un vecchio sentiero che attraversava il bosco. Questo Bel-Shamharoth sembrava pronto ad aiutare i viaggiatori sperduti. In ogni caso, o il tempio o i lupi. Duefiori annuì risoluto.

È interessante notare come, diverse ore dopo, due lupi che seguivano la traccia di Duefiori, arrivarono alla radura. I loro occhi verdi caddero sulla strana incisione a otto zampe, che poteva essere un ragno o una piovra oppure anche qualcosa di più strano, e decisero immediatamente che non erano poi tanto affamati.

A circa sei chilometri di distanza un mago fallito si teneva appeso per le mani all’alto ramo di un faggio.

Era questo il risultato finale di un’attività frenetica. Prima, un’orsa arrabbiata era sbucata dal sottobosco e con una zampata aveva portato via la gola del suo cavallo. Poi, mentre scappava da quel macello, Scuotivento era incappato in un branco di lupi infuriati sparsi in una radura. I suoi istruttori dell’Università Invisibile, che si erano disperati per l’incapacità di Scuotivento di apprendere la levitazione, sarebbero rimasti sbalorditi nel vedere la velocità con la quale lui aveva raggiunto l’albero più vicino e ci si era arrampicato, senza apparentemente toccarlo.

— Perché sogghigni? — aveva domandato il mago alla figura sul ramo accanto.

— Non posso farne a meno — rispose la Morte. — Adesso saresti così gentile da lasciarti andare? Non posso restare nei paraggi tutto il giorno.

— Io posso — ribatté Scuotivento in tono di sfida.

I lupi ammassati ai piedi dell’albero fissavano interessati il loro prossimo pasto parlare da solo.

— Non farà male — disse la Morte. Se le parole avessero un peso, una sola frase pronunciata dalla Morte sarebbe stata sufficiente a ormeggiare una nave.

Le braccia di Scuotivento non ne potevano più. Lui guardò di traverso la figura leggermente trasparente, simile a un avvoltoio. — Non farà male? — ripeté — Essere fatto a pezzi dai lupi non farà male?

Notò un altro ramo che s’incrociava qualche centimetro più in là con il suo pericolosamente sottile. Se soltanto avesse potuto raggiungerlo…

Si sporse in avanti e allungò una mano.

Il ramo, già inclinato, non si ruppe. Fece soltanto un rumorino sordo e si torse.

Scuotivento si trovò appeso all’estremità di una lingua di corteccia e di fibra, che si andava allungando via via che si staccava dall’albero. Guardò giù e con una sorta di soddisfazione fatalistica vide che sarebbe atterrato proprio sul lupo più grosso.

Adesso si muoveva lentamente mentre la striscia di corteccia si andava sempre più allungando. Il serpente lo osservava pensieroso.

Ma la corteccia teneva. Scuotivento cominciava già a congratularsi con se stesso quando, alzando gli occhi, vide quello che fino allora non aveva notato. Proprio davanti a lui, pendeva dal ramo il più grosso nido di vespe che avesse mai visto.

Chiuse forte gli occhi.

"Perché il troll?" si chiedeva. "Tutto il resto rientra nella mia solita fortuna, ma perché il troll? Che diavolo succede’ 7"

Clic. Poteva essere un ramoscello che si spezzava, ma sembrava che il rumore si producesse nella testa del mago. Clic, clic. E un venticello che però non smuoveva nemmeno una foglia.

Passando, la striscia di corteccia strappò via dal ramo il nido di vespe, che sfrecciò accanto alla testa di Scuotivento. Lui lo vide rimpicciolire mentre piombava sul cerchio di musi alzati.

Il cerchio si chiuse d’improvviso.

D’improvviso il cerchio si allargò.

Un concerto di ululati di dolore echeggiò tra gli alberi mentre il branco di lupi cercava di sfuggire alla nuvola infuriata. Scuotivento ridacchiava in modo insensato.

Urtò con il gomito contro qualcosa. Era il tronco dell’albero. La striscia di corteccia lo aveva portato dritto all’estremità del ramo. Ma non c’erano altri rami. La superficie liscia accanto a lui non offriva nessuna presa.

Però offriva delle mani. Due spuntavano in quel momento dalla corteccia coperta di muschio: mani sottili, verdi come le foglie nuove. Poi seguì un braccio ben modellato e quindi l’amadriade si sporse, afferrò il mago sbalordito e, con quella forza vegetale che riesce a penetrare la roccia con le radici, lo tirò dentro l’albero. La solida corteccia si divise come nebbia, si richiuse come un’ostrica.

La Morte guardava impassibile.

Lanciò un’occhiata alla nuvola di effimere danzanti gioiose vicino al suo teschio. Schioccò le dita. Gli insetti piombarono giù. Ma in qualche modo, non era la stessa cosa.

Blind lo spinse sul tavolo la sua pila di gettoni, lanciò uno sguardo torvo con quelli dei suoi occhi che si trovavano nella stanza, e uscì. Alcuni semidei se ne uscirono in risolini soffocati. Almeno Offler aveva accolto la perdita di un troll in perfetto stato con buona grazia anche se un po’ servile.

L’ultimo avversario della Signora spostò la sua seggiola fino a trovarsi di fronte a lei davanti alla scacchiera.

— Signore — disse lei cortesemente.

— Signora — rispose lui. I loro occhi s’incontrarono.

Era un dio taciturno. Si diceva che fosse arrivato nel mondo-disco in seguito a un terribile e misterioso incidente in un’altra Eventualità. Naturalmente gli dei godono della prerogativa di controllare la loro forma esteriore anche nei confronti di altri dei. Il Fato del mondo-disco era un uomo cortese, più che di mezza età, con i capelli grigi ben pettinati e un viso che ispirava fiducia; un tipo, insomma, al quale una fanciulla avrebbe volentieri offerto un bicchiere di birra, se lui fosse apparso alla porta di servizio. Un tipo che un giovane garbato sarebbe stato lieto di aiutare a scendere le scale. Eccetto che per i suoi occhi, naturalmente.

Nessun dio può celare lo sguardo e la natura dei suoi occhi. La natura degli occhi del Fato era questa: mentre a un’occhiata superficiale apparivano semplicemente scuri, a un esame più attento si sarebbero rivelati, troppo tardi, soltanto due buchi che si aprivano su un’oscurità così remota, così profonda che l’osservatore si sarebbe sentito inesorabilmente attirato in quei due pozzi gemelli di notte senza fine e i loro terribili astri rotanti…

La Signora ebbe un piccolo colpo di tosse e mise sul tavolo ventuno gettoni bianchi. Poi ne estrasse dalla tunica un altro, argenteo e traslucente, grande il doppio. L’anima di un vero Eroe trova sempre un migliore corso di cambio ed è tenuta in gran conto dagli dei.

Il Fato inarcò un sopracciglio e disse: — Niente imbrogli, Signora.

— Ma chi potrebbe imbrogliare il Fato? — domandò lei. Lui scrollò le spalle.

— Nessuno. Eppure tutti ci provano.

— Eppure, credo di non sbagliare dicendo che mi avete prestato un po’ di assistenza contro gli altri?

— Ma certo. Perché la fine della partita potesse essere più dolce, Signora. E adesso…

Pescò dalla sua scatola da gioco un pezzo che depose sulla scacchiera con aria soddisfatta. Gli dei che stavano a guardare dettero un sospiro collettivo. Perfino la Signora per un momento parve sorpresa.

Era certamente brutto. La fattura era rozza, come se le mani dell’artigiano tremassero dal terrore della cosa che prendeva forma sotto le sue dita riluttanti. Sembrava fosse tutto ventose e tentacoli. E mandibole, osservò la Signora. E un unico grande occhio.

— Credevo che fosse morto al principio del Tempo — disse.

— Forse la nostra necrotica amica era restia perfino ad avvicinarlo — rise il Fato. Si stava divertendo.

— Non avrebbe mai dovuto essere generato.

— Cionondimeno — disse il Fato sentenziosamente. Vuotò i dadi nel loro insolito contenitore e alzò gli occhi sulla Signora.

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