Mentre cavalcavano tranquilli nell’aria profumata di timo e ronzante di api, Scuotivento rifletteva sulle esperienze degli ultimi giorni. Se il piccolo straniero era chiaramente pazzo, era però generoso e meno pericoloso di metà della gente incontrata in città. A Scuotivento era piuttosto simpatico. Il contrario sarebbe stato come prendere a calci un cucciolo.
Duefiori era solito mostrare un grande interesse per la teoria e la pratica della magia.
— Ma sembra tutto, be’, alquanto inutile — dichiarò. — Sapete, ho sempre pensato che un mago doveva semplicemente limitarsi a pronunciare le parole magiche. Senza tutto questo noioso impararsi a memoria.
Scuotivento, di malagrazia, si dichiarò d’accordo. Cercò di spiegare che una volta la magia era stata libera e senza norme, ma che al tempo dei tempi, era stata regolamentata dagli Antichi che l’avevano costretta a ubbidire, tra l’altro, alla Legge di Conservazione della Realtà. Secondo la quale lo sforzo necessario per raggiungere un fine doveva essere lo stesso, senza tener conto dei mezzi usati. In parole povere ciò significava che, ad esempio, creare l’illusione di un bicchiere di vino era relativamente facile, dato che comportava il semplice spostamento delle composizioni di luce. D’altro lato, sollevare di pochi centimetri in aria un bicchiere di vino vero richiedeva diverse ore di preparazione sistematica se il mago voleva impedire che il semplice potere di levitazione gli facesse schizzare il cervello fuori dalle orecchie. Aggiunse pure che si poteva ancora trovare un po’ dell’antica magia allo stato naturale riconoscibile, per gli iniziati, dall’ottava forma impressa alla struttura cristallina dello spazio-tempo. Così c’erano l’ottirone metallico e il gas ottogeno. Entrambi irradiavano pericolose quantità d’incantesimo puro.
— È tutto assai deprimente — concluse.
— Deprimente?
Scuotiventosi girò sulla sella a guardare il Bagaglio, che trotterellava adagio sulle sue zampette, di tanto in tanto aprendo e richiudendo il coperchio per acchiappare le farfalle. Sospirò.
— Scuotivento pensa che dovrebbe essere capace d’imbrigliare il lampo — annunciò il demonietto, che osservava il paesaggio stando sulla porticina della scatola appesa al collo di Duefiori. Aveva trascorso la mattinata a riprendere per il suo padrone vedute pittoresche e scene curiose, e gli era stato concesso di sospendere per farsi una pipata.
— Quando parlavo d’ imbrigliare non volevo dire bardare — scattò Scuotivento. — Volevo dire, be’, volevo semplicemente dire… non so, non mi viene la parola giusta. Penso soltanto che il mondo dovrebbe essere in certo modo più organizzato.
— Questa è solo una fantasia — disse Duefiori.
— Lo so. Questo è il guaio. — Scuotivento sospirò di nuovo. Si poteva anche blaterare di logica pura e di come l’universo fosse governato dalla logica e dall’armonia dei numeri, ma la verità era che il disco stava chiaramente attraversando lo spazio sul dorso di una tartaruga gigante e che gli dei avevano l’abitudine di recarsi alle case degli atei a fracassarne le finestre.
Si udì un suono lieve, appena più forte del ronzio delle api nei ciuffi di rosmarino lungo la strada. Aveva uno strano timbro osseo, come di teschi rotolanti o di contenitori di dadi agitati. Scuotivento si guardò intorno. Vicino non c’era nessuno.
Per qualche ragione la cosa lo preoccupò.
Venne poi una brezza leggera, che crebbe e sparì nel giro di poche pulsazioni, lasciando il mondo immutato salvo per alcuni interessanti particolari.
Per esempio, in piedi in mezzo alla strada c’era adesso un troll dell’alta montagna, cinque metri. Ed era eccezionalmente incollerito. Ciò dipendeva in parte dal fatto che in genere i troll lo sono sempre; in questo caso, però, era esacerbato perché l’improvviso e istantaneo teletrasferimento dal suo rifugio nelle montagne Rammerorck, a quasi cinquemila chilometri di distanza, aveva fatto alzare la sua temperatura corporea a un livello pericoloso, secondo le leggi della conservazione dell’energia. Così scoprì le zanne e caricò.
— Che strana creatura — osservò Duefiori. — È pericolosa?
— Solo per le persone — gridò Scuotivento. Sfoderò la spada, fece un rapido affondo e mancò completamente il colpo. La lama si abbatté sull’erica al lato del sentiero. Vi fu un rumore quasi impercettibile, come di vecchi denti che battessero.
La spada colpì un masso nascosto nell’erica… nascosto, avrebbe detto un osservatore, così bene che un attimo prima pareva non ci fosse affatto. L’arma balzò su come un salmone che salta fuori dell’acqua e mentre ricadeva affondò nella nuca grigia del gigante.
La creatura emise un brontolio e con una zampata inferse una ferita nel fianco del cavallo di Duefiori; l’animale con un nitrito di dolore sfrecciò al riparo degli alberi che fiancheggiavano la strada. Il gigante girò su se stesso e si lanciò in avanti per afferrare Scuotivento.
Allora il suo tardo sistema nervoso gli comunicò che era morto. Per un attimo sembrò sorpreso, quindi crollò e si disintegrò in pietrisco (essendo i troll forme di vita silicee, i loro corpi, al momento della morte, si riconvertono immediatamente in pietra).
"Aargh" pensò Scuotivento quando il suo cavallo indietreggiò terrorizzato. Lui ci si aggrappò con tutte le sue forze mentre l’animale caracollava su due zampe poi, con un nitrito acuto, si voltava e galoppava dentro i boschi.
Il rumore dei suoi zoccoli svanì e nell’aria rimase soltanto il ronzio delle api e, di quando in quando, il fruscio delle ali delle farfalle. Si udiva anche qualcos’altro, un rumore strano per l’ora assolata del mezzogiorno.
Un rumore che ricordava quello dei dadi.
— Scuotivento?
La lunga navata fronzuta fece risuonare la voce di Duefiori da un lato all’altro e alla fine gliela rimandò indietro, inascoltata. Lui se dette su una roccia e cercò di riflettere.
Primo, si era perso. Sebbene irritante, la cosa non lo preoccupava troppo. La foresta si presentava molto interessante e probabilmente albergava elfi o gnomi, forse entrambi. In effetti, già due volte gli era parso di scorgere strane facce verdi sbirciarlo dai rami. Duefiori aveva sempre desiderato incontrare un elfo. In realtà quello che davvero desiderava incontrare era un dragone, ma si sarebbe accontentato anche di un elfo. O di un vero folletto.
Il suo Bagaglio era scomparso e questo era seccante. Aveva anche cominciato a piovere. Si agitò a disagio sulla pietra umida, sforzandosi di considerare la situazione dal lato meno pessimistico. Per esempio, durante la sua folle corsa, il suo cavallo aveva fatto irruzione in un folto di cespugli e aveva disturbato un’orsa con i suoi piccoli, ma aveva proseguito prima che la bestia potesse reagire. Poi d’improvviso si era trovato a galoppare sopra un grosso branco di lupi addormentati, ma di nuovo correva a una tale velocità che il loro furioso ululato ben presto era rimasto indietro. Ciò nondimeno il giorno stava per finire e Duefiori pensò che sarebbe stata una buona idea non restare all’aperto. Forse c’era una… Si lambiccò il cervello per ricordarsi quali rifugi offrivano le foreste, secondo le migliori tradizioni… Forse c’era una casetta fatta di pan di zenzero o che altro?
La roccia era davvero scomoda. Duefiori abbassò gli occhi e per la prima volta notò la strana scultura.
Sembrava un ragno. O era una seppia? Muschio e licheni non permettevano di distinguerne i dettagli. Ma non impedivano di distinguere i caratteri runici scolpiti in basso. Duefiori era in grado di leggerli chiaramente, e dicevano: "Viaggiatore, il tempio ospitale di Bel-Shamharoth si trova a mille passi da qui in direzione del Centro". Era davvero strano, pensò Duefiori: perché, sebbene fosse capace di leggere il messaggio, le lettere gli erano completamente sconosciute. Il messaggio gli arrivava in qualche modo al cervello senza la noiosa necessità di passare attraverso i suoi occhi.
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