Terry Pratchett - Il colore della magia

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In un angolo remoto dell’universo in una piega isolata del tempo, esiste l’incredibile mondo Disco la cui forma è perfettamente conforme al proprio nome: è infatti un gigantesco disco che le più recenti teorie astronomiche in voga sul pianeta vogliono sorretto da quattro magici elefanti ritti in piedi sul dorso di una cosmica tartaruga (il cui sesso è tuttavia ancora ignoto). La superficie superiore di Disco ospita numerosi regni e varie razze di abitanti, ma la leggenda vuole che anche sul lato inferiore del pianeta esistano terre abitate, ovvero il mitico continente Contrappeso. La leggenda diventa realtà quando nella città di Ankh-Morpork arriva un inatteso visitatore dal continente misterioso: è l’ingenuo e ricchissimo Duefiori, sempre seguito fedelmente dal suo forziere ricco di tesori e di decine di zampette, e ben deciso a godersi una meritata vacanza in veste di turista. Ma fra i troll e i tagliagole che abbondano in città un ricco forestiero può avere vita breve, e un incidente diplomatico va evitato in ogni modo. Al mago Rincewind tocca dunque il compito dì guidare e proteggere l’incauto turista… un’impresa alquanto pericolosa, per non dire disperata.

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— A meno che — aggiunse — desideriate ritirarvi…

Lei scosse la testa. — Giocate — disse.

— Potete uguagliare la mia posta?

Giocate.

Scuotivento sapeva cosa c’era dentro gli alberi: legno, linfa, possibilmente scoiattoli. Non un palazzo.

Eppure… i cuscini su cui sedeva erano senz’altro più morbidi del legno, il vino nella coppa di legno molto più gustoso della linfa, e non poteva assolutamente esserci paragone fra uno scoiattolo e la fanciulla che gli sedeva di fronte e lo guardava, con le mani intrecciate intorno alle ginocchia. A meno di fare menzione di certe tracce di pelosità.

La stanza era alta, vasta e illuminata da una morbida luce gialla proveniente da una fonte che Scuotivento non riusciva a identificare. Attraverso gli archi nodosi si vedono altre stanze e una grande scala a chiocciola. E dire che, dall’esterno, gli era sembrato un albero perfettamente normale.

La fanciulla era verde, la carne verde. Di questo Scuotivento era certissimo perché lei non portava altro che un medaglione intorno al collo. I suoi capelli avevano un aspetto vagamente muschioso. I suoi occhi, senza pupille, erano di un verde luminoso. Scuotivento rimpianse di non avere prestato la dovuta attenzione alle lezioni di antropologia all’Università.

Fino a quel momento lei era rimasta in silenzio. Oltre a indicargli il sedile e offrirgli il vino, si era limitata a restare seduta a osservarlo, strofinandosi di tanto in tanto uno sgraffio profondo sul braccio.

— Mi dispiace di quello — disse in fretta il mago. — È stato soltanto un incidente. Voglio dire, c’erano quei lupi e…

— Hai dovuto arrampicarti sul mio albero e io ti ho salvato — disse soavemente la driade. — È stata una fortuna per te. E per il tuo amico, forse?

— Amico?

— L’ometto con la cassa magica.

— Oh, certo, lui. Già. Spero che stia bene.

— Ha bisogno del tuo aiuto.

— Come sempre. Anche lui è finito su un albero?

— Lui è finito al Tempio di Bel-Shamharoth.

A Scuotivento il vino andò di traverso. Le orecchie tentarono di rientrargli nella testa dal terrore delle sillabe che avevano appena udite. Il Mangiatore di Anime! Prima che potesse fermarli, i ricordi ritornavano a frotte. Una volta, quand’era studente di magia all’Università Invisibile, si era infilato, per scommessa, nella stanzetta accanto alla biblioteca principale. La stanza dai muri ricoperti da pentagrammi protettivi di piombo, la stanza che a nessuno era permesso di occupare per più di quattro minuti e trentadue secondi, cifra alla quale si era arrivati dopo duecento anni di cauta sperimentazione…

Lui aveva aperto con precauzione il Libro, che era incatenato al piedistallo di ottirone in mezzo al pavimento cosparso di caratteri runici, non per paura che qualcuno lo rubasse, ma per timore che esso scappasse via. Perché era l’Ottavo, così pieno di magia da possedere una vaga sensibilità tutta sua. Infatti un incantesimo era balzato fuori dalle pagine fruscianti e si era insediato negli oscuri recessi del suo cervello. E. a parte il fatto di sapere che si trattava di uno degli Otto Grandi Incantesimi, nessuno scopriva qual era finché non lo pronunciava. Ciò valeva perfino per lo stesso Scuotivento. Ma a volte lo sentiva muoversi fuori vista dietro al suo Ego, aspettando l’occasione propizia…

Davanti all’Ottavo c’era stata un’immagine di Bel-Shamharoth. Non era il Male, perché perfino il Male aveva una certa vitalità. Bel-Shamharoth era il rovescio della medaglia di cui il Bene e il Male sono una sola faccia.

— Il Mangiatore di Anime. Il suo numero sta tra sette e nove; è due volte quattro — citò Scuotivento. terrorizzato. — Oh no! Dov’è il Tempio?

— In direzione del Centro, verso il centro della foresta — rispose la driade. — È molto antico.

— Ma chi sarebbe tanto stupido da venerare Bel… lui? Voglio dire, i demoni , ma lui è il Mangiatore di Anime…

— C’erano… certi vantaggi. E la razza che viveva in questi luoghi aveva strane nozioni.

— Cosa è accaduto, dopo?

— Ho detto che viveva in questi luoghi. — La driade si alzò e gli tese la mano. — Vieni. Io sono Druellae. Vieni con me a osservare il fato del tuo amico. Dovrebbe essere interessante.

— Non sono sicuro che… — cominciò Scuotivento.

La driade girò gli occhi verdi su di lui. — Credi di avere scelta? — chiese.

Una scala, larga come un’autostrada, saliva a spirale su per l’albero, con vaste stanze che si aprivano su ogni pianerottolo. Dappertutto la luce gialla che pareva non provenire da nessuna fonte. Si udiva anche un rumore; Scuotivento si concentrò per cercare d’identificarlo: era un rumore come di tuono lontano o di una cascata distante.

— È l’albero — spiegò la driade.

— Che sta facendo?

— Vive.

— Me lo chiedevo. Voglio dire, ci troviamo davvero in un albero? Sono rimpicciolito? All’esterno la pianta mi pareva così stretta da poterla circondare con le braccia.

— Infatti.

— Uhm, ma eccomi qui al suo interno.

— Infatti.

— Uhm — disse Scuotivento.

Druellae rise. — Posso leggerti nella mente, falso mago! Non sono forse una driade? Non sai che ciò che tu sminuisci col nome di albero , non è altro se non il corrispettivo quadridimensionale dell’intero universo multidimensionale che… No, vedo che non lo sai. Avrei dovuto capire che non eri un vero mago quando ho visto che non avevi una bacchetta.

— L’ho perduta in un incendio — dichiarò automaticamente Scuotivento.

— Né un cappello ricamato con i geroglifici magici.

— È volato via.

— Né un demone familiare.

— È morto. Senti, grazie per avermi salvato ma, se non ti dispiace, devo andare. Se vuoi mostrarmi la strada per uscire…

Qualcosa nella sua espressione lo fece voltare. Alle sue spalle c’erano tre driadi maschi. Nudi come la donna e disarmati. Tuttavia, quest’ultimo dettaglio era irrilevante. Non sembrava che avrebbero avuto bisogno di armi per combattere Scuotivento. Ma piuttosto che avrebbero potuto aprirsi una strada nella dura roccia e sconfiggere, per soprammercato, un reggimento di troll.

I tre bei giganti lo guardavano con aria di stolida minaccia. Sotto la pelle, del colore dei malli di noce, i muscoli si gonfiavano come sacchi di meloni.

Il mago si voltò di nuovo verso Druellae sorridendole debolmente. La vita cominciava a riassumere un aspetto familiare.

— Non sono liberato, vero? Sono catturato, giusto?

— Naturalmente.

— E tu non mi lasci andare. — Era una costatazione.

Druellae scosse la testa. — Hai fatto male all’Albero. Ma sei fortunato. Il tuo amico sta per incontrare Bel-Shamharoth. Tu morirai soltanto.

Da dietro, due mani gli afferrarono le spalle allo stesso modo in cui la radice di un vecchio albero si avvolge senza posa intorno a un ciottolo.

— Naturalmente, con certe formalità — continuò la driade. — Dopo che il Signore di Otto avrà finito con il tuo amico.

Tutto ciò che Scuotivento riuscì a dire fu: — Sai, non avevo mai immaginato che esistessero driadi maschi. Nemmeno dentro una quercia.

Uno dei giganti gli rivolse un sorrisetto malizioso.

Druellae sbuffò. — Stupido! Da dove credi che vengano le ghiande?

Cera un vasto spazio vuoto come un atrio, il soffitto celato dalla nebbia dorata. La scala, che pareva salire all’infinito, lo attraversava.

All’estremità dell’atrio erano raggruppate diverse centinaia di driadi, che si divisero rispettosamente all’arrivo di Druellae. I loro sguardi trapassavano Scuotivento, che veniva spinto avanti con fermezza.

Tra di loro si contavano alcuni maschi, immobili come statue gigantesche tra le piccole femmine intelligenti. "Insetti", pensò Scuotivento. "L’Albero è simile a un alveare."

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