— Sono io — disse Duefiori. Il mago si srotolò di un centimetro.
— Cosa?
— Io.
In un solo movimento Scuotivento si srotolò, saltò su davanti all’ometto e lo afferrò disperatamente per le spalle. Aveva gli occhi spalancati e lo sguardo folle.
— Non ditelo! — sibilò. — Non ditelo e così potremmo uscirne!
— Uscirne? Come ci siete entrato? Non sapete…
— Non ditelo!
Duefiori arretrò davanti a quel pazzo.
— Non ditelo!
— Non dire che cosa?
— Il numero!
— Numero? — ripeté Duefiori. — Ehi, Scuotivento…
— Sì, numero. Tra sette e nove. Quattro più quattro.
— Come, ot…
Le mani di Scuotivento gli tapparono la bocca. — Ditelo e siamo condannati. Non ci pensate, va bene? Fidatevi di me!
— Non capisco — si lamentò Duefiori. Scuotivento si rilassò un poco, vale a dire che. in confronto a lui, una corda di violino era come una ciotola di gelatina.
— Forza — disse. — Cerchiamo di uscire. Ci proverò e vi guiderò.
Dopo la prima Età della Magia, nel mondo-disco l’eliminazione degli zibaldoni divenne un serio problema. Un incantesimo è un incantesimo anche se imprigionato temporaneamente in pergamena e inchiostro. Esso ha efficacia. Ciò non rappresenta un problema finché il proprietario del libro resta in vita, ma alla sua morte esso diventa una fonte di potere incontrollato non facile da disinnescare.
In breve, i libri d’incantesimi lasciano uscire la magia. Si sono tentate varie soluzioni. I paesi vicini all’Orlo hanno semplicemente zavorrato i libri dei maghi morti con pentalfa di piombo e li hanno scaraventati giù dal Bordo. Vicino al Centro, le alternative possibili erano meno soddisfacenti. Una era quella d’infilare i libri in recipienti di ottirono sottoposto a polarizzazione negativa e affondarli nelle profondità incommensurabili del mare (la loro sepoltura nelle caverne terrestri era stata proibita dopo che alcune province si erano lamentate di alberi che camminavano e di gatti a cinque teste), ma non molto tempo dopo la magia ne trasudava e alla fine i pescatori si lamentavano di banchi di pesci invisibili o di molluschi immateriali.
Una soluzione temporanea fu la costruzione, in vari centri di tradizione magica, di grandi ambienti fatti di ottirone denaturato, inaccessibile alla maggior parte delle forme di magia. Lì era possibile immagazzinare i volumoni più critici finché la loro potenza si fosse attenuata.
Fu così che all’Università Invisibile si trovava l’Ottavo, il più grande di tutti, già di proprietà del Creatore dell’Universo. Era questo il libro che una volta Scuotivento aveva aperto per scommessa. Bastò che guardasse una pagina per un secondo per attivare i vari allarmi, ma fu sufficiente perché un incantesimo balzasse fuori e s’insediasse nella sua memoria come un rospo sotto una pietra.
— E allora? — chiese Duefiori.
— Oh, mi hanno trascinato fuori. Mi hanno picchiato, naturalmente.
— E nessuno conosce l’effetto dell’incantesimo?
Scuotivento scosse la testa. — È svanito dalla pagina — rispose. — Nessuno lo conoscerà finché non lo dirò io. O finché io muoia, naturalmente. Allora diciamo che uscirà da solo. Per quello che so, esso ferma l’universo o mette fine al Tempo, o qualcosa del genere.
Duefiori gli batté sulla spalla. — Inutile affliggersi — disse allegro. — Diamo un’altra occhiata per trovare il modo di uscire.
Scuotivento scosse la testa. Tutto il terrore era stato ormai consumato. Forse lui aveva oltrepassato la barriera del terrore e si trovava nella disposizione d’animo di calma assoluta esistente dall’altra parte. E comunque, aveva cessato di farfugliare parole insensate.
— Siamo condannati — dichiarò. — Abbiamo camminato in tondo tutta la notte. Parola mia, questo posto è una vera tela di ragno. Non importa da che parte ci dirigiamo, finiamo sempre nel centro.
— In ogni modo, è stato gentile da parte vostra venire a cercarmi — disse Duefiori. — Come avete fatto di preciso? Sono rimasto molto impressionato.
— Oh, be’ — cominciò il mago imbarazzato — ho semplicemente pensato "non posso lasciare là il vecchio Duefiori" e…
— Così non ci resta che trovare questo Bel-Shamharoth, spiegargli la situazione e forse ci lascerà uscire — suggerì Duefiori.
Scuotivento si grattò un orecchio. — Ci devono essere degli echi strani in questo posto. Mi è sembrato udirvi usare parole come trovare e spiegare.
— Infatti.
Il mago gli lanciò un’occhiataccia. — Trovare Ben-Shamharoth?
— Sì. Non dobbiamo lasciarci coinvolgere.
— Trovare il Mangiatore d’Anime e non essere coinvolti? Salutarlo semplicemente con un cenno della testa, suppongo, e chiedergli la via per uscire? Spiegare la situazione al Signore dell’Ott…
Scuotivento troncò la parola appena in tempo e concluse: — Siete matto ! Ehi! Tornate indietro !
Si gettò all’inseguimento di Duefiori e dopo pochi secondi si fermò con un gemito.
La luce violetta lì era più intensa e conferiva a tutto colori nuovi e sgradevoli. Non si trovava in un corridoio ma in una vasta sala, con pareti di cui non osava contemplare il numero, dalla quale partivano ot… 7a corridoi.
Poco più in là, Scuotivento vide un altare basso con lo stesso numero di lati di quattro volte due. Però non era l’altare il centro della sala, ma un’enorme lastra di pietra con due volte i lati di un quadrato. In quella luce strana, la pietra massiccia appariva leggermente inclinata, poggiata di taglio sulle lastre che la circondavano.
Su di essa stava in piedi Duefiori.
— Ehi, Scuotivento! Guardate cosa c’è qui!
Il Bagaglio veniva avanti a passo incerto da uno dei corridoi che si irradiavano dalla sala.
— Magnifico — esclamò Scuotivento. — Bene. Ci può condurre fuori di qui. Ora.
Duefiori stava già frugando nella cassa. — Sì. Dopo che avrò scattato alcune immagini. Il tempo di trovare gli accessori…
— Ho detto adesso…
Scuotivento s’interruppe. In piedi all’estremità del corridoio proprio di fronte a lui, Hrun il Barbaro reggeva nella mano grossa come un prosciutto una grande spada nera.
— Tu? — disse incerto.
— Ahaha. Sì — rispose Scuotivento. — Hrun, non è vero? È un pezzo che non ti vedo. Cosa ti porta qui?
Hrun indicò il Bagaglio. — Quello. — Lo sforzo della.conversazione sembrò esaurirlo. Poi aggiunse, in un tono misto tra affermazione, pretesa, minaccia e ultimatum: — Mio.
— Appartiene a Duefiori qui — ribatté il mago. — Ecco una mancia. Non toccarlo.
Troppo tardi si accorse che quella era precisamente la cosa sbagliata da dire, ma Hrun aveva già scansato Duefiori e allungava la mano verso il Bagaglio…
…che, tirate fuori le gambe, indietreggiò e alzò minaccioso il coperchio. Nella luce incerta a Scuotivento parve di vedere le file di enormi zanne, bianche come rami di faggio secchi.
— Hrun — si affrettò a dire — c’è qualcosa che dovresti sapere.
Hrun si voltò verso di lui con aria irresoluta. — Cosa?
— Si tratta di numeri. Senti, sai che se sommi sette più uno, o tre più cinque, o sottrai due da dieci, ottieni un numero. Finché stai qui, non pronunciarlo e tutti noi potremmo avere la possibilità di uscire vivi da qui. Oppure di uscirne morti.
— Lui chi è? — chiese Duefiori. Reggeva in mano una gabbia, pescata dalle profondità del Bagaglio. Pareva piena di pigre lucertole rosa.
— Sono Hrun — rispose fiero Hrun. Poi guardò Scuotivento. — Cosa? — ripete.
— Semplicemente non dirlo. Sta bene? — gli raccomandò il mago. Guardò la spada in mano al barbaro. Era nera, del nero che non è tanto un colore quanto un cimitero di colori, e sulla lama aveva un’iscrizione in caratteri runici. Ancora più rimarchevole era il lieve alone di ottarino che la circondava. Anche la spada doveva essersi accorta di lui, perché d’un tratto si mise a parlare con una voce simile a un artiglio sfregato sul vetro.
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