Quando se ne fu andato, Sansa si lasciò cadere sulle lenzuola attorcigliate sul pavimento e fissò la parete finché, timidamente, due serve non vennero ad affacciarsi nella stanza. «Avrò bisogno di acqua calda per il bagno, per cortesia» disse loro Sansa. «E profumo, e cipria per nascondere questo livido.» La parte destra del suo viso si stava gonfiando e cominciava a farle male, ma sapeva che Joffrey avrebbe voluto che lei fosse bella.
L’acqua calda le fece tornare alla mente Grande Inverno, e in qualche modo quel pensiero le diede forza. Dal giorno della morte di suo padre non si era più lavata e stentò a credere quanto sporca stesse diventando l’acqua. Le serve le tolsero il sangue dal viso, rimossero il luridume dalla sua schiena, le lavarono i capelli, glieli asciugarono, glieli spazzolarono fino a far tornare alla vita i lunghi, rigogliosi riccioli corvini. Sansa rivolse loro la parola solo per dare ordini: erano serve dei Lannister, non sue, e non poteva fidarsi. Venne il momento di scegliere il vestito e decise per l’abito verde che aveva indossato al torneo del Primo Cavaliere. Quanto era stato galante con lei Joffrey, la notte della festa! Forse quel vestito gliel’avrebbe ricordato, e forse l’avrebbe trattata con maggiore gentilezza.
Nell’attesa che venissero a prenderla, per calmare i crampi allo stomaco bevve un bicchiere di latte e sbocconcellò alcuni biscotti. Ser Meryn Trant riapparve a mezzogiorno. Aveva indossato l’armatura bianca e su di essa una casacca a scaglie smaltate, istoriate d’oro. Portava un alto elmo con cresta a raggi di sole, e anche guanti, gambali, gorgiera e stivali d’acciaio lucidato e infine un mantello di lana pesante, con fermaglio d’oro a forma di leone. La celata era stata rimossa perciò si vedeva la sua faccia circondata da capelli rossicci striati di grigio, dalle fattezze cascanti, marcate borse sotto gli occhi, bocca carnosa atteggiata a una specie di smorfia. «Mia signora» disse inchinandosi, quasi che a pestarla a sangue solamente tre ore prima fosse stato qualcun altro, non lui. «Sua maestà mi ha incaricato di scortarti fino alla sala del trono.»
«E in caso rifiutassi di venire, ti ha anche dato istruzioni di colpirmi di nuovo?»
«Stai rifiutando di venire, mia signora?» Non c’era alcuna espressione nel suo sguardo. Né alcun interesse per il marchio bluastro sulla faccia di lei. Lui non la odiava, si rese conto Sansa. E nemmeno le voleva bene. Per lei non sentiva niente. Lei era solo un oggetto, per lui. «No.» Sansa si alzò. Avrebbe voluto infuriarsi, fargli del male come lui ne aveva fatto a lei, minacciarlo di farlo esiliare, quando fosse stata regina, se avesse osato colpirla di nuovo, ma ricordò ciò che le aveva detto il Mastino perciò si limitò a dire: «Farò qualsiasi cosa comandi sua maestà!».
«Il che vale anche per me» ribatté lui.
«Certo… ma tu non sei un vero cavaliere, ser Meryn.»
Di fronte a una simile affermazione, Sandor Clegane avrebbe riso, altri uomini l’avrebbero maledetta, le avrebbero intimato di tenere la bocca chiusa, avrebbero implorato il suo perdono. Ser Meryn Trant non fece nessuna di queste cose. A ser Meryn Trant non avrebbe potuto importare di meno.
La galleria era deserta. Sansa rimase in piedi a capo chino, ricacciando le lacrime. Sotto di lei, Joffrey sedeva sul Trono di Spade, dispensando ciò che si compiaceva di definire “giustizia”. Nove casi su dieci lo tediarono e lasciò che fosse il Concilio ristretto a occuparsene. Continuò ad agitarsi mentre lord Baelish, il gran maestro Pycelle o la regina Cersei si occupavano di risolvere i vari problemi. Quando però voleva esercitare il potere, neppure la regina sua madre riusciva a smuoverlo.
Un ladro venne portato al suo cospetto e lui ordinò a ser Ilyn Payne di mozzargli una mano, lì, davanti a tutti. Due cavalieri si presentarono con una disputa sulla proprietà di certe terre e lui decretò che si affrontassero in duello all’alba. «A morte» precisò. Una donna si prostrò ai suoi piedi, invocando che le venisse restituita la testa di un uomo decapitato per tradimento. Lei l’aveva amato, disse, e voleva dargli una degna sepoltura. «Amavi un traditore?» disse Joffrey. «Significa che anche tu fai parte del tradimento.» Due mantelli dorati afferrarono la donna e la trascinarono nelle segrete della fortezza.
Il nuovo lord Janos Slynt, dalla faccia di rospo, sedeva verso il fondo del tavolo del Concilio ristretto. Indossava un farsetto di velluto nero e una lucente cappa di stoffa intessuta d’oro. Ogni volta che il re pronunciava una sentenza, annuiva in piena approvazione. Sansa guardò con odio la sua brutta faccia, ricordando che aveva scaraventato suo padre sul parapetto, in modo che ser Ilyn potesse decapitarlo. Quanto avrebbe voluto fargli del male, quanto avrebbe voluto che un vero eroe decapitasse lui. Ma una vocina dentro di lei disse: “Non ci sono eroi”. Ricordò le parole che lord Petyr Baelish le aveva detto proprio in quella sala: «La vita non è una ballata, mia dolce fanciulla. Un giorno, potresti impararlo a tue spese». “Nella vita, sono i mostri a trionfare” si disse, e riudì la fredda voce metallica di Sandor Clegane: «Risparmiati altro dolore, ragazzina. Dagli quello che vuole».
L’ultimo caso fu quello di un grasso menestrello di taverna accusato di aver composto una ballata che metteva in ridicolo il defunto re Robert. Joffrey gli ordinò di prendere l’arpa e di eseguire la ballata per la corte. Il menestrello pianse, si disperò, spergiurò che mai avrebbe cantato di nuovo quella ballata, ma il re fu inflessibile. Era una ballata divertente, basata sulla lotta di re Robert contro un maiale. Il maiale era il cinghiale che l’aveva ucciso, Sansa lo sapeva, ma in certe rime sembrava quasi che fosse la regina. Conclusa la canzone, Joffrey annunciò che sarebbe stato clemente. Il cantante poteva scegliere: tenersi le dita o tenersi la lingua. Gli era concessa una giornata per fare la scelta. Janos Slynt annuì.
Così si concluse la giustizia del re, almeno per quel pomeriggio. Ma per Sansa, la conclusione era ancora lontana. Quando l’araldo annunciò che la seduta era tolta, lei si precipitò giù per le scale, cercando di dileguarsi, ma Joffrey l’aspettava alla base della scala ricurva che scendeva dalla galleria. Con lui c’erano il Mastino e ser Meryn. Il re la guardò dalla testa ai piedi. «Hai un aspetto molto migliore di prima.»
«Grazie, maestà.» Parole vuote, le quali però lo fecero annuire e sorridere.
«Passeggia con me» le ordinò offrendole il braccio. Sansa non ebbe altra scelta se non prenderlo. Un tempo, il tocco della sua mano le avrebbe fatto battere il cuore, adesso le faceva accapponare la pelle. «Il giorno del mio onomastico arriverà presto» le disse mentre uscivano dal retro della sala del trono. «Ci sarà una grande festa. E molti regali. Tu cos’hai intenzione di donarmi?»
«Io… non ci ho ancora pensato, mio signore.»
«Maestà!» la rimbeccò lui. «Sei proprio stupida, vero? Anche mia madre lo dice.»
«Dice questo?» Dopo tutto quello che lui le aveva fatto, era certa che le sue parole avessero perduto il potere di farle del male, e invece scoprì che non era così. La regina con lei era sempre stata tanto gentile.
«Oh, certo. È preoccupata per i nostri figli: potrebbero venire fuori stupidi quanto te.» Il re fece un gesto e ser Meryn aprì loro la porta. «Io però le ho detto di non turbarsi.»
«Grazie, maestà» mormorò Sansa. “Il Mastino aveva ragione” pensò. “Sono solo un uccelletto ammaestrato, e ripeto tutto quello che mi hanno insegnato.” Il sole era sceso dietro le mura a ovest e le pietre della Fortezza Rossa scintillavano, scure come il sangue.
«Metterò un figlio dentro di te non appena sarai in grado di averne.» Joffrey continuò a parlare, scortandola attraverso il cortile delle esercitazioni. «Se il primo che mi farai sarà stupido, ti farò tagliare la testa e prenderò una moglie più intelligente. Quando pensi che sarai in grado di avere figli?»
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