Bill Porta attraversò la stanza e spalancò la porta.
Chicchi di grandine grossi come uova di gallina rimbalzarono sulla soglia fin dentro la cucina.
OH. ESAGERATO.
«Oh, diavolo!»
La signorina Flitworth si riparò sotto il suo braccio.
«E da dove viene questo vento?»
DAL CIELO?, disse Bill Porta, sorpreso dall’improvvisa agitazione.
«Andiamo!» Tornò di corsa in cucina e rovistò nella credenza in cerca di una lanterna e dei fiammiferi.
MA HA DETTO CHE SI SAREBBE ASCIUGATO.
«Con una tempesta normale, sì. Ma con questa? Si rovinerà! Domani mattina lo troveremo sparso sulla collina!»
Accese la candela e tornò indietro di corsa.
Bill Porta guardò la tempesta. La paglia turbinava nel vento.
ROVINATO? IL MIO RACCOLTO? Raddrizzò la schiena. ’FANCULO.
La grandine batteva sul tetto dell’officina del fabbro.
Ned Simnel pompò il soffietto della fornace finché il cuore della fornace divenne bianco con un accenno di giallo.
Era stata una buona giornata. La Mietitrebbiatrice aveva funzionato meglio di quanto avesse osato sperare; il vecchio Peedbury aveva insistito per tenerla e fare un altro campo l’indomani, perciò l’avevano lasciata fuori, coperta da una cerata fissata al terreno. L’indomani avrebbe potuto insegnare a uno degli uomini a usarla, e cominciare a lavorare su un nuovo modello più avanzato. Successo sicuro. Il futuro era a portata di mano.
Poi c’era la storia della falce. Andò alla parete dove era stata appesa. Era un po’ un mistero. Nel suo genere, era lo strumento più splendido che avesse mai visto. Non si poteva nemmeno smussare. Il filo si estendeva ben oltre il limite effettivo della lama. Eppure doveva distruggerla. Che senso aveva? Ned Simnel credeva molto nel senso, in un tipo molto specifico di senso.
Forse Bill Porta voleva solo liberarsene, e quello era comprensibile, visto che anche così, appesa alla parete, sembrava irradiare affilatezza. C’era una fioca aura violetta attorno alla lama, provocata dalle correnti che portavano sfortunate molecole d’aria alla morte per taglio netto.
Ned Simnel la prese in mano con grande attenzione.
Strano tipo, Bill Porta. Aveva detto che voleva essere certo che fosse morta. Come se si potesse uccidere una cosa.
E comunque, come facevi a distruggerla? Oh, il manico sarebbe bruciato e il metallo calcinato, e se ci avesse lavorato su abbastanza, alla fine non sarebbe rimasto che un mucchietto di polvere e cenere. Quello che voleva il cliente.
D’altro canto, presumibilmente potevi distruggerla anche staccando la lama dal manico… Dopotutto, in quel modo non sarebbe più stata una falce. Sarebbero stati solo… dei pezzi. Certo, pezzi con cui si poteva costruire una falce; ma quello era possibile anche con la cenere e la polvere, se sapevi come fare.
Ned Simnel era molto soddisfatto del suo ragionamento. E in fondo Bill Porta non aveva chiesto le prove che la cosa fosse stata… ehm… uccisa.
Prese accuratamente la mira e usò la falce per tagliare l’estremità dell’incudine. Incredibile.
Acume assoluto.
Si arrese. Non era leale. Non si poteva chiedere a uno come lui di distruggere una cosa come quella. Era un’opera d’arte.
Meglio ancora. Era un’opera dell’ingegno.
Gettò la falce dietro una catasta di legname. Ci fu un breve squittio.
Comunque, non c’erano problemi. L’indomani mattina avrebbe restituito a Bill Porta il suo quarto di penny.
La Morte dei Ratti si materializzò dietro la catasta di legna nell’officina, e si avvicinò al triste mucchietto di pelo che era stato il topo finito sulla traiettoria della falce.
Il suo fantasma era lì vicino, e pareva ansioso. Non sembrò molto felice di vederla.
«Squitt?Squitt?»
SQUITT, spiegò la Morte dei Ratti.
«Squitt?»
SQUITT, confermò la Morte dei Ratti.
«[Baffi lisciati] [Naso arricciato]?»
La Morte dei Ratti scosse la testa.
SQUITT.
Il topo ci rimase malissimo. La Morte dei Ratti gli posò sulla spalla una zampa ossuta ma non del tutto priva di gentilezza.
SQUITT.
Il topo annuì tristemente. Aveva fatto una bella vita, nell’officina. Pulizie praticamente inesistenti, e Ned era forse il campione mondiale di paninisbocconcellati-lasciati-in-giro. Scrollò le spalle e seguì la piccola figura ammantata. Non che avesse scelta, del resto.
La gente si riversava nelle strade. La maggior parte inseguiva carrelli, e la maggior parte dei carrelli era piena di cose che la gente aveva pensato di trasportare comodamente in un carrello: legna, bambini, spesa.
E non procedevano più in modo elusivo, ma si muovevano alla cieca, tutti nella stessa direzione.
Si poteva fermare un carrello rovesciandolo, e le ruote continuavano a girare follemente a vuoto. I maghi videro un bel po’ di individui entusiasti che cercavano di sfasciarli, ma i carrelli erano praticamente indistruttibili: si piegavano ma non si spezzavano, e anche con una sola rotella rimasta tentavano eroicamente di continuare la corsa.
«Guardate quello!» disse l’Arcicancelliere. «C’è dentro il mio bucato! Che gli si stacchino tutte le ruote!»
Si fece strada fra la folla e incastrò il bastone tra le ruote del carrello, rovesciandolo.
«Non si può prendere bene la mira con tutti questi civili intorno» si lagnò il Decano.
«Ci sono centinaia di carrelli!» disse il professore di Rune Recenti. «Sono come i vermoli! [14] I vermoli sono piccoli roditori bianchi e neri che si trovano sulle Ramtop Mountains. Sono progenitori dei lemming, che come è noto si gettano dai dirupi e annegano nei laghi con regolarità. Lo facevano anche i vermoli. Il punto, tuttavia, è che gli animali morti non si riproducono, e nel corso dei millenni sempre più vermoli sono stati generati da quelli che, di fronte a un dirupo, squittiscono l’equivalente roditorio di Voi Siete Tutti Scemi. Ora i vermoli si calano giù dalle pareti rocciose in cordata, e costruiscono barchette per attraversare i laghi. Quando l’istinto li spinge verso il mare, si siedono per un po’ senza incrociare lo sguardo degli altri e poi vanno via presto per evitare l’ora di punta.
Levati di torno, razza di… cesto!»
Colpì ripetutamente con il bastone un carrello importuno.
La marea dei cesti a rotelle stava fluendo fuori dalla città. Gli umani agitati desistettero gradualmente o caddero sotto le ruote barcollanti. Solo i maghi rimasero nel flusso, gridandosi l’un l’altro e attaccando lo sciame argentato con i bastoni. Non che la magia non funzionasse, al contrario. Un buon tiro trasformava un carrello in mille intricati puzzle di fil di ferro. Ma a che serviva? Un secondo dopo ne spuntavano altri due.
Attorno al Decano i carrelli finivano in coriandoli di metallo.
«Ci ha preso proprio gusto, eh?» disse il Sommo Algebrico, mentre insieme al Tesoriere metteva sottosopra l’ennesimo carrello.
«Dice un sacco di ‘Yo’, non c’è dubbio» rispose il Tesoriere.
Quanto al Decano, non ricordava di essere mai stato così contento. Per sessant’anni aveva obbedito alle regole autoimposte della stregoneria, e all’improvviso si stava divertendo un mondo. Non si era mai reso conto che, nel profondo, quello che voleva fare davvero era spiaccicare le cose.
Il fuoco saettava dalla punta del bastone. Manici e pezzi di fil di ferro, e ruote che giravano pateticamente tintinnavano intorno a lui. E la cosa più bella era che i bersagli non finivano mai. Una seconda ondata di carrelli, ammassati in uno spazio più stretto, stavano cercando di avanzare sopra quelli ancora in contatto con il terreno. Non funzionava, ma ci provava comunque. E ci provava disperatamente, perché una terza ondata stava già facendosi strada sopra le altre due, spaccando tutto. Però la parola ‘provare’ non è esatta, perché suggerisce una sorta di sforzo cosciente, una specie di possibilità che ci fosse anche uno stato in cui non provavano. Qualcosa, in quel movimento inesorabile, nel modo in cui sbattevano l’uno contro gli altri, suggeriva che i cesti di fil di ferro avevano tanta scelta quanto l’acqua ne ha di scorrere verso il basso.
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