Margaret Weis - La sfida dei gemelli

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Quell’uomo parlava elfico! Elfico di Silvanesti! Per qualche istante Tanis rimase così sorpreso da riuscire soltanto a fissarlo. Il conducente della carrozza scelse quel momento per schiarirsi la gola.

Era stato un viaggio lungo e arduo, e c’erano ottime locande a Palanthas, con della birra che era leggendaria dovunque, su Ansalon...

Ma Tanis non aveva alcuna intenzione di congedare la carrozza basandosi unicamente sulla parola di un mago vestito di nero. Aprì la bocca per fargli altre domande, quando l’usufruitore di magia tirò fuori le mani dalle maniche della sua veste, dove finora le aveva tenute piegate, e fece un rapido cenno di diniego con una, mentre eseguiva un cenno d’invito con l’altra.

«Per favore,» interloquì di nuovo in elfico. «Le spiace camminare con me? Poiché sono diretto anch’io nello stesso luogo. Elistan ci attende.»

Ci attende! Confuso, Tanis si arrovellò il cervello. Da quando in qua Elistan invitava gli usufruitori di magia vestiti di nero nel Tempio di Paladine? E da quando in qua gli usufruitori di magia vestiti di nero mettevano volontariamente il piede su quei terreni sacri?

Be’, era ovvio che l’unico modo di scoprirlo era accompagnare quella strana persona e risparmiarsi le domande fino a quando non fossero rimasti soli. Perciò, un po’ confusamente, Tanis impartì le sue istruzioni al cocchiere. La figura vestita di nero rimase in silenzio accanto a lui, osservando la carrozza che si allontanava. Poi Tanis si rivolse alla Veste Nera.

«Lei è in vantaggio su di me, signore,» disse il mezzelfo in un silvanesti esitante, una lingua che era un elfico più puro del qualinesti che Tanis aveva imparato a parlare fin dalla nascita.

La figura s’inchinò, poi buttò indietro il cappuccio in modo che la luce del mattino cadesse sulla sua faccia, illuminandogliela. «Io sono Dalamar,» dichiarò, tornando a infilare le mani nelle maniche della veste. Su Krynn erano pochi che avrebbero stretto le mani a un mago dalle Vesti Nere.

«Un elfo scuro,» disse Tanis, stupefatto, parlando prima di pensare. Arrossì. «Mi spiace,» aggiunse poi, impacciato. «È soltanto che non ho mai incontrato...»

«Uno della mia razza?» terminò Dalamar con disinvoltura. Un sorriso appena accennato gì’increspò i lineamenti elfici, freddi, ben strutturati e senza espressione. «No, suppongo di no. Noi che siamo stati “cacciati dalla luce”, come dicono, non ci avventuriamo spesso sui piani dell’esistenza illuminati dal sole.» D’un tratto il suo sorriso divenne più caldo, e Tanis vide un’espressione malinconica negli occhi dell’elfo scuro, mentre il suo sguardo si posava sul boschetto di pioppi tremoli dov’era rimasto celato, fino a poco prima, nell’ombra. «Talvolta, però, anche noi proviamo nostalgia di casa.»

Anche Tanis rivolse lo sguardo verso i pioppi, i più amati dagli elfi fra tutti gli alberi. Anche lui sorrise, sentendosi molto più a proprio agio. Tanis... aveva percorso anche lui i propri sentieri tenebrosi, ed era stato molto vicino a cadere in parecchi precipizi che gli si erano spalancati sotto i piedi. Poteva capire.

«L’ora del mio appuntamento si avvicina,» disse. «E, da quello che hai detto, suppongo che tu sia in qualche modo coinvolto in questa faccenda. Forse dovremmo proseguire...»

«Certo.» Dalamar parve riprendersi. Seguì Tanis sul prato verde senza nessuna esitazione. Tanis, nel voltarsi, rimase considerevolmente colpito nel vedere un fugace spasimo di dolore contorcere i delicati lineamenti dell’elfo, insieme a un visibile sussulto.

«Cosa c’è?» Tanis si fermò. «Non ti senti bene? Posso aiutarti...»

Dalamar costrinse i propri lineamenti sprizzanti dolore a trasformarsi in un sorriso contorto. «No, Mezzelfo,» disse. «Non c’è niente che tu possa fare per aiutarmi. Né in realtà io mi sento male.

Assai peggiore sarebbe il tuo aspetto se entrassi nel Bosco di Shoikan che protegge la mia dimora.»

Tanis annuì, mostrando di comprendere. Poi, quasi di malavoglia, lanciò un’occhiata in distanza verso la Torre scura e tetra che si stagliava sopra Palanthas. Mentre la guardava, fu afferrato da una strana impressione. Guardò il Tempio, bianco nella sua semplicità, alle proprie spalle, poi di nuovo la Torre. Vedendoli insieme, fu come se vedesse ognuno di essi per la prima volta. Entrambi avevano un aspetto più completo, finito, intero, di quanto l’avessero quando venivano visti separatamente, staccati l’uno dall’altro. Quella era soltanto un’impressione fugace alla quale non ripensò fino a qualche tempo dopo. Adesso poteva pensare a una cosa soltanto...

«Allora, vive là? Con Rai... Con lui?». Per quanto ci provasse, Tanis sapeva di non poter pronunciare il nome dell’arcimago senza provare una rabbia amara, e così evitava del tutto di farlo.

«È il mio Shalafi, » rispose Dalamar, con la voce tesa per il dolore.

«Così, lei è il suo apprendista,» replicò Tanis, avendo riconosciuto la parola elfica per Maestro.

Inarcò le sopracciglia. «Ma allora, cosa mai fa qui? È lui che l’ha mandata?». Se fosse così, pensò il mezzelfo, lascerò subito questo posto, anche se dovessi tornare a piedi fino a Palanthas.

«No,» rispose Dalamar. Il suo volto si svuotò d’ogni colore. «Ma è di lui che parleremo.» L’elfo scuro si buttò il cappuccio sopra la testa. Quando riprese a parlare, fu ovvio che questo gli costava uno sforzo notevole. «E adesso devo pregarla di affrettarsi a proseguire. Ho un amuleto, datomi da Elistan, che mi aiuterà ad affrontare questa prova. Ma prolungarla non mi fa affatto piacere.»

Elistan che dava amuleti a un usufruitore di magia dalle Vesti Nere? All’apprendista di Raistlin?

Pieno di perplessità, Tanis acconsentì di accelerare il proprio passo.

«Tanis, amico mio!»

Elistan, chierico di Paladine e capo della chiesa del continente di Ansalon, porse la mano al mezzelfo. Tanis la strinse con calore, cercando di non far caso a quanto ora fosse debole, spenta, la stretta un tempo salda e robusta del chierico. Tanis lottò anche per controllare la propria faccia, sforzandosi d’impedire che i sentimenti di sbigottimento e di pietà affiorassero nei suoi lineamenti mentre fissava la figura fragile, quasi scheletrica, adagiata su un letto e sostenuta dai cuscini.

«Elistan...» cominciò a dire Tanis con calore.

Uno dei chierici vestiti di bianco che gravitava vicino al suo capo sollevò lo sguardo sul mezzelfo e corrugò la fronte.

«Intendevo dire, Re... Reverendo Figlio.» Tanis prese a balbettare, su quel titolo ufficiale. «Hai un bell’aspetto.»

«E tu, Tanis Mezzelfo, hai preso l’abitudine di mentire,» osservò Elistan, sorridendo nel vedere l’espressione addolorata che Tanis cercava disperatamente di non far trasparire dalla sua faccia.

Elistan batté sulla mano abbronzata dal sole di Tanis le sue dita bianche e sottili. «E non fare il buffone con quella sciocchezza del “Reverendo Figlio”. Sì, so che è corretto e appropriato, Garad, ma quest’uomo mi conosceva quand’ero uno schiavo nelle miniere di Pax Tharkas. Adesso, andate pure, voi tutti,» disse ai chierici che gli orbitavano intorno. «Portate quello che abbiamo per mettere comodi i nostri ospiti.»

Il suo sguardo andò all’elfo scuro che era crollato su una poltrona accanto al fuoco che ardeva nelle sue stanze private. «Dalamar,» disse Elistan, in tono gentile, «questo viaggio non può essere stato facile per te. Sono in debito nei tuoi confronti per averlo intrapreso. Ma qui, nei miei alloggi, puoi trovare la quiete. Cosa gradisci?»

«Del vino,» riuscì a rispondere l’elfo scuro, attraverso le labbra rigide e cineree. Tanis colse il tremito delle mani dell’elfo sui braccioli della poltrona.

«Portate del vino e del cibo per i nostri ospiti,» disse Elistan ai chierici che stavano uscendo in fila dalla stanza, molti di loro lanciando sguardi di disapprovazione al mago in veste nera.

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