Margaret Weis - La sfida dei gemelli

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Fui arrestato. Trascinato attraverso le strade di Palanthas, pubblicamente umiliato, fui bersaglio delle rozze battute e dei più ignobili nomignoli della plebaglia. Non c’era niente che alla feccia piacesse di più che vedere un Cavaliere ridotto al loro livello. Giurai che un giorno mi sarei vendicato di tutti loro e della loro bella città. Ma questo pareva senza speranza. Il mio processo fu rapido. Venni condannato a morte, come traditore della cavalleria. Spogliato delle mie terre e del mio titolo, sarei stato giustiziato, la gola mi sarebbe stata tagliata con la mia stessa spada. Accettai la mia morte. Giunsi ad aspettarla con impazienza, convinto ancora che fosse stata lei a respingermi.

Ma la notte prima della mia esecuzione, i miei uomini, che mi erano rimasti fedeli, mi liberarono dalla prigione. Lei si trovava con loro. Mi raccontò tutto, mi disse che portava in grembo il mio bambino.

Le donne elfe l’avevano perdonata, disse, e, anche se adesso non avrebbe potuto mai più diventare una Reverenda Figlia di Paladine, avrebbe ancora potuto vivere fra la sua gente, anche se la sua disgrazia l’avrebbe seguita fino all’ultimo dei suoi giorni. Ma non aveva potuto sopportare il pensiero di andarsene via senza dirmi addio. Mi amava, questo era evidente. Ma capivo che le storie che aveva sentito raccontare su di me la tormentavano.

Inventai alcune bugie su mia moglie alle quali lei credette. Avrebbe creduto che il buio era luce, se gliel’avessi detto. Con l’animo in pace, acconsentì a fuggire con me. Adesso sapevo che era soprattutto per questo che era venuta lì da me. Accompagnato dai miei uomini, fuggii fino a Dargaard Keep.

Avrei dovuto essere soddisfatto di me stesso, della mia vita, della mia nuova sposa... che presa in giro fu quella cerimonia di matrimonio! Ma ero tormentato dal senso di colpa e, cosa ancora peggiore, dalla perdita del mio onore. Mi resi conto di esser fuggito da una prigione soltanto per trovarmi rinchiuso in un’altra... un’altra di mia scelta. Ero sfuggito alla morte soltanto per vivere un’esistenza tenebrosa e sciagurata. Divenni imbronciato, scontroso. Ero sempre pronto agli scatti di collera, pronto a colpire, e adesso le cose andavano peggio. I servitori fuggirono, dopo che ne ebbi colpiti molti. I miei uomini cominciavano a evitarmi. E poi, una notte, picchiai anche lei, lei, l’unica persona a questo mondo che potesse darmi anche soltanto un brandello di conforto.

Guardando nei suoi occhi pieni di lacrime, vidi il mostro che ero diventato. La presi tra le braccia e invocai il suo perdono. I suoi adorabili capelli mi ricaddero intorno. Potei sentire il mio bambino che scalciava nel suo ventre. Inginocchiati là, insieme, pregammo Paladine. Avrei fatto qualsiasi cosa, dissi al dio, per ripristinare il mio onore. Chiesi soltanto che mio figlio, o mia figlia, non crescesse conoscendo la mia vergogna.

E Paladine rispose. Mi parlò del Gran Sacerdote, e di quali arroganti pretese quell’uomo sciocco accampasse nei confronti degli dei. Mi disse che il mondo avrebbe sentito la collera degli dei a meno che, come Huma aveva fatto prima di me, un uomo non fosse stato disposto a sacrificarsi per salvare gli innocenti.

La luce di Paladine sfavillò intorno a me. La mia anima tormentata era colma di pace. Come mi pareva piccolo quel sacrificio di offrire la mia vita, in modo che il mio bambino venisse cresciuto nell’onore e il mondo potesse venire salvato. Cavalcai fino a Istar del tutto intenzionato a fermare il Gran Sacerdote, sapendo che Paladine era con me.

Ma anche un altro cavalcava al mio fianco durante quel viaggio: la Regina delle Tenebre. Così, ella conduce una continua guerra per conquistare le anime che si diletta ad ammaliare. Che cosa usò per sconfiggermi?

Quelle stesse donne elfe, chierici del dio per il quale avevo intrapreso la mia missione.

Quelle donne avevano da tempo dimenticato il nome di Paladine. Come il Gran Sacerdote, esse si trovavano intrappolate nella loro rettitudine e non potevano vedere niente attraverso i veli della loro benignità. Colmato dalla mia ipocrisia, feci saper loro ciò che intendevo compiere. La loro paura fu grande. Non credettero che gli dei avrebbero punito il mondo. Anzi, la loro più grande e convinta aspettativa era il giorno in cui soltanto il bene (intendendo gli elfi) sarebbe esistito su Krynn.

Dovevano fermarmi. Ed ebbero successo.

La Regina è saggia. Conosce le tenebrose regioni del cuore di un uomo. Avrei travolto un esercito, se mi avesse intralciato il cammino. Ma le sommesse parole di quelle donne elfe s’insinuarono nel mio sangue come il veleno. Com’era stato facile per la fanciulla elfa sbarazzarsi di me, dissero.

Adesso aveva il mio castello, la mia ricchezza, tutto per sé, senza l’inconveniente d’un marito umano. Ero certo che quel bambino fosse mio? Era stata vista in compagnia di uno dei giovani del mio seguito. Dov’era andata, dopo aver lasciato la mia tenda durante la notte?

Non mentirono mai una sola volta. Mai una sola volta dissero qualcosa contro di lei. Ma le loro domande divoravano la mia anima, la corrodevano. Ricordai parole, episodi, espressioni. Fui certo di essere stato tradito. Li avrei sorpresi insieme! Avrei ucciso lui! Avrei fatto soffrire lei!

Voltai le spalle a Istar.

Arrivato a casa, abbattei le porte del mio castello. Mia moglie, allarmata, mi venne incontro, stringendo tra le braccia il suo bambino. E c’era un’espressione disperata sul suo volto: la presi per un’ammissione di colpevolezza. La maledissi, maledissi il bambino. E in quel medesimo istante la montagna fiammeggiante colpì Ansalon.

Le stelle caddero dal cielo. Il suolo tremò e si spaccò. Un lampadario illuminato da cento candele venne giù dal soffitto. In un istante, mia moglie fu avvolta dalle fiamme. Sapeva che stava morendo, ma mi porse il bambino perché lo salvassi dal fuoco che la stava divorando. Esitai, poi, con la collera gelosa che ancora mi riempiva il cuore, mi allontanai.

Con il suo ultimo, morente respiro invocò su di me la collera degli dei. “Morirai questa notte tra le fiamme!” gridò. “Proprio come moriamo tuo figlio ed io. Ma vivrai per sempre nella tenebra. Vivrai una vita per ogni altra vita che la tua follia ha condotto alla fine stanotte.” E, con queste parole, morì.

Le fiamme si propagarono. Il mio castello fu ben presto un unico, immenso rogo. Tentammo, ma niente potè spegnere quell’arcano fuoco. Bruciava perfino la roccia. I miei uomini cercarono di fuggire. Ma, mentre guardavo, anch’essi esplosero in fiamme. Non era rimasto in vita nessuno, su quella montagna, nessuno, salvo io. Mi trovavo nella grande sala, solo, circondato da ogni lato dal fuoco che ancora non mi toccava. Ma, mentre mi trovavo là, lo vidi chiudersi su di me, avvicinarsi sempre di più... di più...

Morii lentamente, in una insopportabile agonia. Quando finalmente giunse la morte, non mi portò nessun sollievo, poiché chiusi i miei occhi soltanto per riaprirli di nuovo, contemplando intorno a me un mondo di vuota, desolante disperazione e di eterno tormento. Notte dopo notte, per interminabili anni, sono rimasto seduto su questo trono e ho ascoltato quelle donne elfe che cantavano la mia storia.

Ma questo è finito. È finito con te, Kitiara...

Quando la Regina delle Tenebre mi convocò perché l’aiutassi nella guerra, le dissi che avrei servito il primo Signore dei Draghi che avesse avuto abbastanza coraggio da passare la notte in Dargaard Keep. Ve ne fu uno soltanto, tu, mia bellezza. Tu, Kitiara. Per questo ti ammirai. Ti ammirai per il tuo coraggio, per la tua abilità, per la tua spietata determinazione. In te vedo me stesso. Vedo quello che avrei potuto diventare.

Ti ho aiutato ad assassinare gli altri Signori dei Draghi quando siamo fuggiti da Neraka in subbuglio in seguito alla sconfitta della Regina, ti ho aiutata a raggiungere Sanction, e là ti ho aiutata a consolidare ancora una volta il tuo potere su questo continente. Ti ho aiutato quando hai cercato di ostacolare i piani di tuo fratello, Raistlin, per sfidare la Regina delle Tenebre. No, non mi ha sorpreso il fatto che ti abbia battuto in astuzia. Fra tutti i viventi che ho incontrato, lui è il solo che temo.

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