Margaret Weis - La sfida dei gemelli

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In quanto a Laurana, be’, non poteva biasimarla. Queste cerimonie erano abbastanza ardue per lui, ma Laurana era la prediletta di Palanthas, il loro Generale Dorato, colei che aveva salvato la loro bella città dalle devastazioni della guerra. Non c’era niente che non avrebbero fatto per lei, salvo lasciarle un po’ di tempo per se stessa. Durante l’ultima celebrazione del Giorno della Fine della Guerra, Tanis aveva portato a casa sua moglie tenendola fra le braccia, più esausto di quanto lo sarebbe stata lei dopo tre giorni ininterrotti di battaglia.

La immaginò a Silvanesti, intenta a ripiantare i fiori, a lavorare per alleviare i sogni degli alberi torturati, riportandoli un po’ per volta alla vita, a far visita ad Alhana Starbreeze, adesso sua cognata, che doveva esser tornata anche lei a Silvanesti, ma senza il suo nuovo marito, Porthios.

Finora, il loro matrimonio era stato gelido e senza amore, e Tanis si chiese per un breve istante se Alhana non avesse cercato rifugio a Silvanesti proprio per questo motivo. Il Giorno della Fine della Guerra doveva essere arduo anche per Alhana. I suoi pensieri andarono a Sturm Brightblade, il cavaliere che Alhana aveva amato, il quale giaceva morto nella Torre del Grande Chierico e, di qui, i pensieri di Tanis vagarono su altri amici... e nemici.

Come se fosse stata evocata da quei ricordi, un’ombra scura si allungò sopra la carrozza. Tanis guardò fuori dal finestrino. In fondo a una strada lunga, vuota e deserta, intravide una chiazza di tenebra: il Bosco di Shoikan, la foresta guardiana della Torre della Grande Stregoneria di Raistlin.

Perfino da quella distanza, Tanis poteva percepire il gelo che fluiva da quegli alberi, un gelo che riempiva di freddo il cuore e l’anima. Il suo sguardo andò alla Torre che si levava al di sopra dei bellissimi edifici di Palanthas come una punta di lancia di ferro nero conficcata attraverso il bianco seno della città.

I suoi pensieri andarono alla lettera che l’aveva condotto lì a Palanthas. Abbassò lo sguardo su di essa e ne rilesse le parole: Tanis Mezz’elfo.

Dobbiamo incontrarti subito. Emergenza gravissima. Il Tempio di Paladine. Dopoveglia Nascente 12, Quartigiorno, anno 356.

E questo era tutto. Nessuna firma. Tanis sapeva soltanto che Quartigiorno era oggi e, avendo ricevuto la missiva soltanto due giorni prima, era stato costretto a viaggiare giorno e notte per raggiungere Palanthas in tempo. La lingua di quel breve messaggio era l’elfico, la calligrafia anch’essa elfica. Non era insolito. Elistan aveva molti chierici elfi... ma perché non l’aveva firmata?

Sempre che fosse stata compilata davvero da Elistan. Eppure, chi, altrimenti, avrebbe potuto mandare un tale invito a recarsi nel Tempio di Paladine?

Con una scrollata mentale di spalle, ricordando di essersi posto quelle stesse domande più di una volta senza mai arrivare a una conclusione soddisfacente, Tanis tornò a infilare la lettera nella borsa. Il suo sguardo andò, poco volentieri, alla Torre della Grande Stregoneria.

«Scommetto che ha qualcosa a che fare con te, vecchio amico,» mormorò fra sé, corrugando la fronte e pensando, ancora una volta, alla strana scomparsa di quel chierico, Dama Crysania.

La carrozza tornò a fermarsi, strappando un’altra volta Tanis dai suoi cupi pensieri. Guardò fuori dal finestrino, intravedendo il Tempio, ma si costrinse ad aspettare pazientemente sul suo sedile fino a quando il valletto non venne ad aprirgli la portiera. Sorrise fra sé. Poteva quasi vedere Laurana, seduta davanti a lui, che lo fissava furente, sfidandolo ad allungare la mano verso la maniglia della porta. Laurana aveva impiegato parecchi mesi per eliminare la vecchia, impetuosa abitudine di Tanis di precipitarsi a spalancare la portiera, mandando a ruzzolare per terra il valletto, di lato, proseguendo poi per la sua strada senza un solo pensiero per il conducente, la carrozza, i cavalli e qualunque altra cosa.

Adesso era diventata una battuta privata fra loro. A Tanis piaceva osservare gli occhi di Laurana che si socchiudevano in un finto allarme quando la sua mano si allungava provocante verso la maniglia della portiera. Ma questo non faceva altro che ricordargli quanto sentiva la sua assenza.

Comunque, dov’era finito quel dannato valletto? Per gli dei, lui era solo. Questa volta, tanto per cambiare, avrebbe fatto a modo suo...

La portiera si spalancò. Il valletto stava armeggiando col gradino pieghevole.

«Oh, dimenticatene,» sbottò Tanis, impaziente, balzando a terra. Ignorando la vaga espressione di sensibilità oltraggiata del valletto, Tanis tirò un profondo sospiro, lieto di essere finalmente sfuggito ai soffocanti confini della carrozza.

Si guardò intorno, lasciando che la meravigliosa sensazione di pace e di benessere che s’irradiava dal Tempio di Paladine filtrasse nella sua anima. Nessuna foresta proteggeva quel luogo sacro.

Vasti prati di morbida erba verde, lisci come il velluto, invitavano il viaggiatore a passeggiare, a sedersi e a riposare. Giardini pieni di fiori dai vivaci colori deliziavano l’occhio, con il loro profumo che riempiva l’aria di soavità. Qua e là, boschetti di alberi offrivano la loro ombra come rifugio dall’abbagliante luce del sole. Un’acqua fresca e pura sgorgava dalle fontane. Chierici vestiti di bianco passeggiavano nei giardini, a testa china, impegnati in solenni discussioni.

Levandosi dal sapiente disegno dei giardini e dei boschetti ombreggiati e dal tappeto d’erba, il Tempio di Paladine rifletteva un soffuso chiarore, alla luce del sole mattutino. Costruito con marmo bianco, era una struttura semplice e disadorna che arricchiva quell’impressione di pace e di tranquillità che prevaleva tutt’intorno a esso.

C’erano cancelli, ma non guardie. Tutti erano invitati a entrare, e molti, infatti, lo facevano. Quello era un rifugio per i sofferenti, per gli infelici, gli affaticati. Quando Tanis cominciò a farsi strada attraverso il prato ben tenuto, vide molte persone sedute o distese sull’erba, tutte con un’espressione rilassata sul volto dalla quale, a giudicare dai segni della stanchezza e degli affanni, non erano stati molto spesso confortati.

Tanis aveva fatto soltanto pochi passi quando si ricordò, con un nuovo sospiro, della carrozza. Si fermò e si girò. «Aspettami,» stava per dire, quando una figura emerse dalle ombre di un boschetto di pioppi tremoli che si ergeva proprio sul confine del terreno del Tempio. «Tanis Mezzelfo?» chiese la figura.

Quando la figura uscì in piena luce, Tanis ebbe un sussulto. Era vestita di nero. Numerose borse e altri congegni per lanciare incantesimi erano appesi alla sua cintura, rune d’argento erano abbondantemente ricamate sulle sue maniche e sul cappuccio del suo mantello nero. Raistlin! pensò Tanis all’istante, poiché aveva avuto in mente l’arcimago solo pochi istanti prima.

Ma no, non era lui. Il respiro di Tanis si fece più tranquillo. Quell’usufruitore di magia era più alto di Raistlin, almeno di una testa e delle spalle. Il suo corpo era dritto e ben formato, perfino muscoloso, il suo passo era giovanile e vigoroso. Inoltre, adesso che Tanis lo fissava con maggiore attenzione, si rese conto che la sua voce era ferma e profonda, del tutto diversa dal sussurro malefico e inquietante di Raistlin.

E, se la cosa non fosse stata troppo strana, Tanis avrebbe anche giurato di aver sentito quell’uomo parlare con accento elfico. «Sono Tanis Mezzelfo,» rispose, un po’ in ritardo. Malgrado non potesse vedere il volto della figura, nascosto com’era profondamente nelle ombre del suo cappuccio nero, ebbe l’impressione che l’uomo avesse sorriso.

«Sì, mi era parso di averla riconosciuta. Mi è stato descritto molto spesso. Ora può congedare la sua carrozza. Non ce ne sarà bisogno. Lei passerà molti giorni, perfino settimane, qui a Palanthas.»

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