Margaret Weis - La sfida dei gemelli

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Soth sedeva solo.

Il Cavaliere della Morte aveva congedato i suoi assistenti, ex cavalieri come lui, che gli erano rimasti fedeli in vita, per cui erano stati maledetti e costretti a restargli fedeli anche nella morte.

Aveva mandato via anche le banshee, le donne elfe che avevano avuto un molo nella sua caduta e che adesso erano condannate a servirlo in eterno. Per centinaia d’anni, sin dalla terribile notte della sua morte, Lord Soth aveva ordinato a quelle sfortunate donne di rivivere insieme a lui la sua condanna. Ogni notte, mentre sedeva sul suo trono in rovina, le costringeva a esibirsi, intonando una canzone che raccontava la storia della sua disgrazia e della loro.

Quella canzone causava a Lord Soth un amaro dolore, ma lui benediceva quel dolore. Era dieci volte meglio del nulla che pervadeva il suo empio sopravvivere alla morte in tutti gli altri momenti.

Ma questa notte non aveva ascoltato la canzone. Ascoltava invece la sua storia come gli veniva bisbigliata dall’amaro vento della notte che s’insinuava attraverso i grondoni della rocca in rovina.

«Una volta, molto tempo fa, ero un Lord Cavaliere di Solamnia. Allora ero tutto: aitante, affascinante, coraggioso, sposato a una donna che possedeva una grande fortuna, anche se non la bellezza. I miei cavalieri mi erano devoti. Sì, gli uomini mi invidiavano: ero Lord Soth di Dargaard Keep.

La primavera che precedette il Cataclisma, lasciai Dargaard Keep e cavalcai con il mio seguito fino a Palanthas. C’era un Consiglio dei Cavalieri e la mia presenza era stata richiesta. M’importava poco di quell’incontro del Consiglio, che si sarebbe dilungato con interminabili discussioni relative a regole insignificanti. Ma ci sarebbe stato da bere, una buona compagnia, storie di battaglie e di avventure. Era per quello che ci andavo.

Cavalcavamo lentamente, prendendocela con comodo, le nostre giornate erano piene di canti e di lazzi. Durante la notte alloggiavamo nelle locande quando potevamo, e dormivamo sotto le stelle quando non potevamo. Il tempo era bello, era una primavera mite. Il sole era caldo, le brezze della sera ci rinfrescavano. Avevo trentadue anni, quella primavera. Nella mia vita ogni cosa andava per il meglio. Non ricordo di essere mai stato più felice.

E poi, una notte, maledetta la luna d’argento che l’illuminava, eravamo accampati nella selva. Un grido nel buio ci destò dai nostri sonni. Era il grido di una donna, poi sentimmo le grida di molte donne mescolate alle urla aspre degli orchi.

Ghermendo le nostre armi ci precipitammo nella pugna. Fu una facile vittoria: era soltanto una banda errabonda di ladroni. Per la maggior parte fuggirono al nostro avvicinarsi, ma il capo, o più coraggioso o più ubriaco degli altri, si rifiutava di essere privato della sua preda. Personalmente non lo potevo biasimare. Aveva catturato una giovane e adorabile fanciulla elfa. Alla luce della luna la sua bellezza era radiosa, la sua paura dava un risalto ancora maggiore alla sua fragile avvenenza. Da solo lo sfidai. Combattemmo ed io fui il vincitore. E fu la mia ricompensa, ah, quale dolceamara ricompensa, trasportare fra le mie braccia la fanciulla elfa svenuta là dove si trovavano i miei compagni.

Posso ancora vedere i suoi bellissimi capelli dorati risplendere alla luce delle lune. Posso ancora vedere i suoi occhi, quando si ridestò, fissarsi sui miei, e posso vedere perfino adesso, come lo vidi allora, nascervi l’amore per me. E lei vide, nei miei occhi, l’ammirazione che non potevo nascondere. I pensieri di mia moglie, del mio onore, del mio castello, ogni cosa fuggì via mentre fissavo quel bellissimo volto.

Mi ringraziò, e con quanta timidezza mi parlò! La riconsegnai alle donne elfe, erano un gruppo di chierici in viaggio per Palanthas, e da lì fino a Istar in pellegrinaggio. Lei era soltanto una novizia.

E durante quel viaggio sarebbe stata fatta Reverenda Figlia di Paladine. Lasciai lei e le donne e tornai con i miei uomini all’accampamento. Cercai di dormire, ma sentivo ancora quel corpo snello e giovane fra le mie braccia. Mai prima di allora avevo bruciato a tal punto di passione per una donna.

Quando mi addormentai, i miei sogni furono una dolce tortura. Quando mi svegliai, il pensiero che avremmo dovuto separarci fu come una coltellata nel mio cuore. Mi alzai presto, e tornai al campo elfico. Inventandomi una storia di bande di goblin raminghi che si aggiravano fra quel luogo e Palanthas, non mi fu difficile convincere le donne elfe dell’indispensabilità della mia protezione. I miei uomini non erano contrari a una tale piacevole compagnia, e così viaggiammo con loro. Ma questo non servì ad alleviare la mia sofferenza. Al contrario, la intensificò. Giorno dopo giorno l’osservavo cavalcare accanto a me, ma non abbastanza accanto. Notte dopo notte dormivo solo, con i pensieri in subbuglio.

La volevo. La volevo più di quanto avessi mai voluto una qualunque cosa al mondo. Ma ero un Cavaliere impegnato dal più severo giuramento a rispettare il Codice e la Misura, impegnato dai sacri voti a rimanere fedele a mia moglie, impegnato dai giuramenti di comandante a guidare i miei uomini nel nome dell’onore. A lungo combattei con me stesso e, alla fine, credetti di esserne uscito vittorioso. Domani, dissi, partirò, e sentii la pace discendere su di me.

Intendevo davvero partire, e l’avrei fatto. Ma, maledetto destino, presi parte a una partita di caccia nel bosco e là, lontano dal campo, la incontrai. Era stata mandata a raccogliere erbe.

Lei era sola, io ero solo. I nostri compagni erano lontani. L’amore che avevo visto nei suoi occhi vi risplendeva ancora. Lei aveva sciolto i capelli, che le ricadevano fino ai piedi in una nube dorata. Il mio onore, la mia ferma decisione si dissolsero in un istante, bruciati dalla fiamma del desiderio che mi aveva travolto. Fu facile sedurla, povera, piccola creatura. Un bacio, poi un altro. Poi, trascinandola giù nell’erba fresca, accarezzandola con le mani, facendo tacere le sue proteste con la mia bocca sulla sua, e... una volta che l’ebbi fatta mia... le asciugai le lacrime baciandogliele.

Quella notte venne di nuovo da me, nella mia tenda. Ero smarrito nella beatitudine. Le promisi che l’avrei sposata, naturalmente. Che altro potevo fare? Dapprima non parlavo sul serio. Come avrei potuto? Avevo una moglie, una moglie ricca. Avevo bisogno dei suoi soldi. Le mie spese erano alte.

Ma poi una notte, mentre stringevo la fanciulla elfa tra le mie braccia, seppi che non avrei mai potuto rinunciare a lei. E sistemai le cose in modo che mia moglie venisse rimossa in maniera permanente...

Continuammo il nostro viaggio. Ormai le donne elfe avevano cominciato a sospettare. E come non avrebbero potuto? Era difficile per noi nascondere i nostri segreti sorrisi durante il giorno, difficile evitare ogni occasione per rimanere insieme.

Venimmo, di necessità, separati quando raggiungemmo Palanthas. Le donne elfe andarono ad alloggiare in una delle più belle case usate dal Gran Sacerdote quando veniva a visitare la città.

Insieme ai miei uomini, io raggiunsi i nostri acquartieramenti. Ma ero fiducioso che lei avrebbe trovato il modo di venire da me, dal momento che io non potevo andare da lei. Passata la prima notte, non mi preoccupai troppo. Ma poi passò la seconda, e la terza, e ancora nessuna notizia.

Alla fine, udii bussare alla mia porta. Ma non era lei. Era il capo dei Cavalieri di Solamnia, accompagnato dal capo di ciascuno dei tre Ordini dei Cavalieri. Capii, quando li vidi, quello che doveva essere accaduto. Lei aveva scoperto la verità, e mi aveva tradito.

Invece, non era stata lei a tradirmi, bensì le donne elfe. La mia amante si era ammalata, e quando erano venute a curarla, avevano scoperto che aveva in grembo il mio bambino. Non l’aveva detto a nessuno, neppure a me. Le dissero che ero sposato e, cosa ancora peggiore, nello stesso momento arrivò a Palanthas la notizia che mia moglie era “misteriosamente” scomparsa.

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