Margaret Weis - La sfida dei gemelli
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- Название:La sfida dei gemelli
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Le tue vicende amorose mi hanno perfino divertito, mia Kitiara. Noi morti non possiamo provare istinti erotici. Quella è una passione del sangue, e nessun sangue scorre in queste braccia e in queste gambe di ghiaccio. Ti ho osservato mentre rovesciavi come un guanto quell’imbelle, Tanis mezzelfo, e mi sono goduto ogni istante, tanto quanto te.
Ma adesso, Kitiara, cosa sei diventata? La padrona è diventata la schiava. E per cosa? Per un elfo!
Oh, ho visto brillare i tuoi occhi quando pronunci il suo nome. Ho visto tremare le tue mani quando stringi le sue lettere. Pensi a lui, quando invece dovresti progettare la guerra. Perfino i tuoi generali non riescono più a richiamare la tua attenzione.
No, noi morti non possiamo provare impulsi sessuali. Ma possiamo provare odio, possiamo provare invidia. Possiamo provare gelosia e bramosia di possesso.
Potrei uccidere Dalamar. L’elfo scuro, l’apprendista, è bravo, ma non è in grado di tenermi testa. Il suo maestro? Raistlin? Ah, quella sarebbe una storia diversa.
Oh, mia Regina, nel tuo Abisso tenebroso, guardati da Raistlin! In lui stai per affrontare la tua sfida più grande, e devi, alla fine, affrontarla da sola. Non posso aiutarti su quel piano, Maestà Oscura, ma forse posso aiutarti su questo.
Sì, Dalamar, potrei ucciderti. Ma ho imparato cosa vuol dire morire, e la morte è una cosa scialba e meschina. Il suo dolore è agonia, ma ben presto finisce. Quale dolore assai maggiore è continuare a vivere, morti, nel mondo dei vivi, sentire l’odore del loro sangue caldo, vedere le loro carni morbide, e sapere che non potranno mai più essere tue... sì, mai più. Ma anche tu verrai a conoscere fin troppo bene tutto questo, elfo scuro...
In quanto a te, Kitiara, sappi questo: sopporterò questo dolore, vivrò un altro secolo di esistenza torturata piuttosto che vederti di nuovo fra le braccia di un uomo vivente!»
Il cavaliere morto rifletteva e complottava. La sua mente continuava a girare e a contorcersi come i rami spinosi delle rose nere che coprivano il suo castello. Gli scheletrici guerrieri andavano su e giù per i bastioni in rovina, ognuno librandosi vicino al luogo in cui aveva incontrato la propria morte.
Le donne elfe si torcevano le mani scarnificate gemendo per il loro destino, in preda alla più amara sofferenza.
Soth non sentiva nulla, non era consapevole di nulla. Se ne stava seduto sopra il suo trono annerito, fissando, senza vederla, la chiazza scura e carbonizzata sul pavimento di pietra: una chiazza che per anni aveva tentato di cancellare con tutta la potenza della sua magia, ma quella chiazza rimaneva ancora là, una chiazza che disegnava i contorni di un corpo di donna...
E poi, alla fine, quelle labbra invisibili sorrisero, e la silenziosa vampa di quegli occhi arancione arse vivida nella notte interminabile.
«Tu, Kitiara, sarai mia per sempre...»
Capitolo primo.
La carrozza si arrestò sferragliando. I cavalli sbuffarono, con energiche scrollate, facendo tintinnare le bardature, pestando gli zoccoli sulle lisce pietre del selciato come se avessero fretta di finire quel viaggio e di far ritorno alle loro comode stalle.
Una testa sporse dal finestrino della carrozza.
«Buon giorno, signore. Benvenuto a Palanthas. La prego di dichiarare il suo nome e il motivo della sua visita.» Ciò venne detto con voce squillante e in tono formale da un giovane ufficiale dall’aspetto smagliante, che doveva essere appena entrato in servizio. La guardia sbirciò dentro la carrozza e sbatté gli occhi, cercando di aggiustare lo sguardo per distinguere ciò che si trovava là dentro, nelle fresche ombre. Il tardo sole di primavera risplendeva luminoso quanto il volto del giovane, probabilmente perché anch’esso era entrato in servizio da poco.
«Mi chiamo Tanis Mezzelfo,» dichiarò l’occupante della carrozza, «e sono stato invitato dal Reverendo Figlio Elistan. Ho qui una lettera. Se vuole aspettare un istante, io...»
«Lord Tanis!» Il volto dell’ufficiale che si profilava nel finestrino della carrozza divenne scarlatto come l’uniforme adorna di alamari e di spalline da lui indossata. «Mi scusi, signore, io... io non l’avevo riconosciuta, non potevo veder bene, altrimenti sono sicuro che avrei riconosciuto...»
«Maledizione, uomo,» l’interruppe Tanis, irritato, «non stia a scusarsi per aver fatto il suo dovere.
Ecco qui la lettera...»
«Non lo farò, signore. Vale a dire, lo farò, signore. Vale a dire che sì, mi scuso, signore.
Terribilmente dispiaciuto, signore. La lettera? No, non è proprio necessaria, signore.»
Balbettando, l’ufficiale di guardia lo salutò, scattando sull’attenti, batté la testa contro il piccolo parasole del finestrino della carrozza, facendosi male, s’impigliò nella portiera con il polsino merlettato della manica, scattò di nuovo sull’attenti e alla fine fece ritorno barcollando al suo posto, dando l’impressione di essere appena uscito da un combattimento contro una banda di hobgoblin.
Sogghignando fra sé, ma di un cupo sogghigno, Tanis si lasciò andare contro lo schienale mentre la carrozza proseguiva lungo la sua strada, varcando le porte delle Mura della Città Vecchia. Le sentinelle erano state un’idea sua. C’erano volute moltissime discussioni e una grande dose di persuasione da parte di Tanis per convincere Lord Amothus di Palanthas che le porte della città non soltanto dovevano essere sbarrate, ma anche attentamente sorvegliate.
«Ma la gente potrebbe non sentirsi benvenuta. Potrebbe offendersi,» aveva protestato Amothus, debolmente. «E, dopotutto, la guerra è finita.»
Tanis sospirò di nuovo. Quando avrebbero imparato? Mai, suppose, cupo, contemplando fuori del finestrino la città che, più di ogni altra nel continente di Ansalon, incarnava la compiacenza nella quale il mondo era caduto dalla fine della Guerra delle Lance, due anni prima. Due anni prima a primavera, a esser più precisi.
Ciò strappò a Tanis un altro sospiro. Maledizione! Se n’era dimenticato! Il Giorno della Fine della Guerra! Quand’era? Tra due settimane? Tre? Avrebbe dovuto infilarsi quello stupido costume: l’armatura da cerimonia di un Cavaliere di Solamnia, le insegne elfiche, le bardature nanesche. Ci sarebbero state cene con cibi troppo ricchi che l’avrebbero tenuto sveglio metà della notte, discorsi che l’avrebbero fatto dormire dopo cena, e Laurana...
Tanis gemette. Laurana! Lei se ne sarebbe ricordata! Naturalmente! Come poteva essere stato così stupido? Erano rientrati a casa a Solanthas soltanto poche settimane prima, dopo aver partecipato ai funerali di Solostaran a Qualinesti, e quando lui era tornato a Solace per cercare Dama Crysania, ma senza successo, era arrivato un messaggio a Laurana redatto nella scorrevole scrittura elfica:
Tua presenza richiesta urgentemente a Silvanesti!
«Sarò di ritorno fra quattro settimane, mio caro,» lei gli aveva detto, baciandolo teneramente. Ma c’era stata una risata in quegli occhi... quegli occhi adorabili!
Lei lo aveva lasciato! Lo aveva lasciato perché partecipasse a quella dannata cerimonia! E lei sarebbe tornata nelle terre natie degli elfi che, pur lottando ancora per sfuggire agli orrori a essi inflitti dall’incubo di Lorac, erano infinitamente preferibili a una serata insieme a Lord Amothus...
D’un tratto Tanis si rese conto di ciò che aveva pensato. Un ricordo mentale di Silvanesti riaffiorò in lui, con i suoi alberi orrendamente torturati che piangevano sangue, i volti tormentati e contorti dei guerrieri elfi che guardavano fuori dalle ombre. Un’immagine sorse nella sua mente, di una delle cene di Lord Amothus, a mo’ di paragone...
Tanis cominciò a ridere. Sarebbe stato pronto ad affrontare in qualunque momento i guerrieri nonmorti !
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