Margaret Weis - La sfida dei gemelli

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Continuarono ad avanzare incespicando quasi a ogni passo, e nonostante Tas facesse del suo meglio per aiutarlo, per Caramon ogni passo era un’agonia. Il dolore delle ferite s’impadronì di lui, e ben presto Caramon perse ogni concetto del tempo. Dimenticò perché erano venuti, e perfino dov’erano diretti. Avanzare un passo per volta in un’oscurità che era diventata un buio profondo della mente e dell’anima era il solo pensiero di Caramon.

Continuò a camminare... e a camminare... e a camminare... un passo, un passo, un passo...

E per tutto il tempo quell’urlo orribile e imperituro continuò a stridergli negli orecchi...

“Caramon!”

La voce penetrò il suo cervello stanco, intorpidito dal dolore. Adesso, ebbe la sensazione di averla udita già da un po’ di tempo, al di sopra dell’urlo ma, se era così, non aveva penetrato la nebbia tenebrosa che lo avvolgeva.

“Cosa?” borbottò, e adesso divenne consapevole che delle mani lo afferravano, scuotendolo.

Sollevò la testa e si guardò intorno.

“Cosa?” chiese un’altra volta, lottando per recuperare il controllo della realtà. “Tas?”

“Guarda, Caramon!”. La voce gli giunse come attraverso una nebbia, e allora scrollò la testa, disperato, per spazzare via la nebbia che aveva nel cervello.

E si rese conto di poter vedere. C’era luce: la luce delle lune! Sbattendo le palpebre, si guardò intorno. “La Foresta?”

“Dietro di noi,” bisbigliò Tas, come se parlarne ad alta voce potesse all’improvviso riportarla indietro. “Almeno ci ha fatto arrivare da qualche parte. Anche se non so di sicuro dove. Guardati intorno. Ti ricordi di questo?”

Caramon diede un’occhiata. L’ombra della Foresta era scomparsa. Lui e Tas si trovavano in una radura. Rapidamente, pieno di timore, si guardò intorno.

Ai suoi piedi si spalancava un abisso tenebroso.

Dietro di loro la Foresta aspettava. Caramon non dovette voltarsi per vederla, sapeva che era là, proprio come sapeva che non avrebbero potuto rientrarvi e uscirne vivi. Li aveva condotti fin là, e qui li avrebbe lasciati. Ma dov’era qui? Gli alberi erano alle loro spalle, ma davanti a loro si stendeva il nulla: soltanto un vuoto sconfinato e oscuro. Avrebbero potuto benissimo trovarsi sull’orlo di un precipizio, come Tas aveva detto.

Nubi tempestose oscuravano l’orizzonte ma, per il momento, nessuna di esse pareva vicina. In alto, poteva vedere le lune e le stelle nel cielo. Lunitari ardeva di un rosso fiammeggiante, la luce argentea di Solinari risplendeva d’un fulgore che Caramon non aveva mai visto prima. E adesso, forse a causa del netto contrasto fra l’oscurità e la luce, poteva vedere Nuitari: la luna nera, la luna che era stata visibile soltanto agli occhi di suo fratello. Intorno alle lune, le stelle splendevano vivide, ma nessuna di esse era più luminosa di quella strana costellazione a forma di clessidra.

Gli unici suoni che poteva udire erano i borbottii rabbiosi della Foresta alle sue spalle e, davanti a lui, quell’urlo orribile e stridente.

Non avevano scelta, pensò Caramon con stanchezza. Non c’era modo di tornare indietro. La Foresta non l’avrebbe consentito. E cos’era, comunque, la morte se non la fine di quel dolore, di quella sete, di quell’amara sofferenza nel suo cuore?

“Rimani qui, Tas,” cominciò a dire, cercando di staccarsi di dosso le piccole mani del kender mentre si preparava ad avanzare nel buio. “Andrò un po’ avanti a esplorare...”

“Oh, no!” gridò Tas. “Tu non andrai da nessuna parte senza di me!” Le mani del kender strinsero ancora più saldamente. “Diamine, guarda in quanti guai ti sei cacciato da solo durante le guerre dei nani!” aggiunse, cercando di sbarazzarsi di una noiosa sensazione di soffocamento che provava alla gola. “E quando sono arrivato là, ho dovuto salvarti la vita.” Tas guardò giù, nell’oscurità che si stendeva ai loro piedi, poi digrignò con fare risoluto i denti e sollevò lo sguardo per incontrare quello dell’omone. “Io ere... credo... che mi sentirei tremendamente solo nell’Oltretomba senza di te e, inoltre, sento già quello che direbbe Flint: “Be’, pomolo d’una porta che non sei altro, cosa hai combinato stavolta? Sei riuscito a perdere quella grossa fetta di lardo, vero? C’era da immaginarlo. Adesso, suppongo che dovrò lasciare il mio sedile bello e morbido sotto quest’albero e mettermi a cercare quell’idiota tutto muscoli. Non ha mai saputo come mettersi al riparo dalla pioggia...”

“Molto bene, Tas,” lo interruppe Caramon con un sorriso, avendo avuto un’improvvisa visione di quel vecchio nano bisbetico. “Bisogna assolutamente che cerchiamo di non disturbare Flint. Non la finirebbe più con i suoi discorsi.”

“Inoltre,” proseguì Tas, sentendosi più allegro, “perché mai dovrebbero averci spinto in avanti per tutta questa strada, per farci precipitare dentro un pozzo?”

“Perché mai, infatti?” si chiese a sua volta Caramon, riflettendo. Stringendo la propria gruccia, sentendosi più fiducioso, avanzò di un passo.

Capitolo sesto.

La Torre della Grande Stregoneria si profilava davanti a lui, un oggetto di tenebra, che si stagliava contro la luce delle lune e delle stelle, dando l’impressione di essere stata creata dalla notte stessa.

Per secoli si era erta, bastione di magia, ricettacolo dei libri e dei manufatti dell’Arte, raccolti nel corso del tempo.

Qui i maghi erano venuti quando erano stati cacciati dalla Torre della Grande Stregoneria di Palanthas dal Gran Sacerdote, qui avevano portato con sé gli oggetti di maggior valore salvati dalle mani della plebaglia inferocita. Qui avevano dimorato in pace, protetti dalla Foresta di Wayreth.

Qui i giovani apprendisti usufruitori della magia affrontavano la Prova, la Prova snervante che significava la morte per quanti fallivano.

Qui Raistlin era venuto e aveva perso la propria anima iniziando la sua sfida a Fistandantilus. Qui Caramon era stato costretto a guardare Raistlin che assassinava un alter ego illusorio del proprio gemello.

Qui Caramon e Tas erano tornati con la nana dei fossi, Bupu, trasportando il corpo esanime di Dama Crysania. Qui avevano assistito a un conclave delle Tre Vesti: Nera, Rossa e Bianca. Qui avevano appreso quale fosse l’ambizione di Raistlin: sfidare la Regina delle Tenebre. Qui avevano incontrato il suo apprendista e spia del Conclave: Dalamar. Qui il grande arcimago Par-Salian aveva lanciato il suo incantesimo per i viaggi nel tempo su Caramon e Dama Crysania, inviandoli a Istar nei giorni che avevano preceduto la caduta della montagna sulla città.

Qui Tasslehoff aveva inavvertitamente sconvolto l’incantesimo balzando dentro il cerchio, per partire insieme a Caramon. Così, la presenza del kender, proibita da tutte le leggi della magia, aveva fatto sì che il tempo si trovasse modificato.

Adesso Caramon e Tas erano tornati... per trovare che cosa?

Caramon fissò la Torre, con il cuore appesantito dai timori e dai brutti presentimenti. Il coraggio gli era venuto meno. Non poteva entrare, non con l’echeggiare inarrestabile di quel penoso urlo inumano che gli trapassava le orecchie. Meglio tornare indietro, meglio affrontare una morte rapida nella Foresta. Inoltre, si era dimenticato dei cancelli. Fatti d’argento e oro, essi si ergevano ancora bloccando saldamente il suo accesso alla Torre. Parevano sottili come ragnatele, apparivano come strisce nere dipinte sul cielo illuminato dalle stelle. Il tocco della mano di un kender avrebbe potuto aprirli. Ma intorno a essi erano strettamente avvolti degli incantesimi... incantesimi così potenti che un esercito di orchi avrebbe potuto scagliarsi contro quei cancelli dalla parvenza così fragile, senza nessun effetto.

Sempre quell’urlo, adesso più forte e più vicino. Così vicino che, in realtà, avrebbe potuto provenire da... Caramon fece un altro passo avanti, la sua fronte si corrugò. E mentre faceva questo, i cancelli comparvero chiaramente alla sua vista.

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