Margaret Weis - La sfida dei gemelli
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- Название:La sfida dei gemelli
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All’improvviso, i fruscii ricominciarono, come se un vento di tempesta stesse scuotendo i rami degli alberi. Caramon divenne teso e perfino Tas s’irrigidì allarmato, quando sentirono gli alberi che ricominciavano a rinserrarsi su di loro. Tas e Caramon erano impotenti nel buio, mentre gli alberi si avvicinavano sempre di più. I rami toccarono la loro pelle e le foglie morte sfiorarono i loro capelli, bisbigliando strane parole ai loro orecchi. La mano tremante di Caramon tornò a chiudersi sopra l’elsa della spada, anche se sapeva che sarebbe servito a ben poco. Ma poi, quando gli alberi li premevano ormai da ogni lato, i movimenti e i bisbigli cessarono. Gli alberi erano di nuovo immoti.
Allungando la mano, Caramon toccò i solidi tronchi alla sua destra e alla sua sinistra. Poteva sentirli ammassati alle sue spalle. Gli venne un’idea: tese un braccio nel buio e tastò intorno a sé. Il terreno era sgombro.
“Tienti vicino a me, Tas,” ordinò e per una volta nella sua vita il kender non discusse. Insieme, avanzarono inoltrandosi nell’apertura lasciata dagli alberi.
Dapprima si mossero con cautela, timorosi d’inciampare su una radice o su un ramo caduto, o di rimanere impigliati in un cespuglio o di ruzzolare dentro una buca. Ma a poco a poco si resero conto che il suolo della foresta era liscio e asciutto, sgombro da ogni ostacolo, libero da qualunque vegetazione. Non avevano nessuna idea di dove stavano andando. Camminavano nella più assoluta oscurità, sospinti lungo un sentiero irreversibile dagli alberi che si dischiudevano davanti a loro per poi rinchiudersi alle loro spalle. Qualunque deviazione dal sentiero stabilito li conduceva a ridosso di una muraglia di tronchi e di rami aggrovigliati, di foglie morte e sussurranti.
Il calore era opprimente. Non c’era vento, non cadeva pioggia. La sete, smarritasi nella loro paura, tornò a tormentarli. Asciugandosi il sudore sul viso, Caramon si meravigliò dello strano, soffocante calore, poiché era assai più intenso qui che all’esterno della Foresta. Pareva che il calore venisse generato dalla Foresta stessa. La Foresta era più viva di quanto avesse notato le ultime due volte che era stato lì. Certamente era più viva del mondo esterno: sentiva, o gli pareva di sentire, tra il frusciare degli alberi, i movimenti di animali o il frullio delle ali degli uccelli, e talvolta sorprese un luccichio nel buio. Ma il fatto di trovarsi di nuovo in mezzo a esseri viventi non fece provare nessuna sensazione di conforto a Caramon. Percepiva il loro odio e la loro rabbia ma, nel medesimo istante in cui li sentiva, si rese conto che non erano diretti contro di lui. Erano diretti contro se stessi.
E poi sentì di nuovo il canto degli uccelli, come li aveva sentiti l’ultima volta che era penetrato in quel luogo arcano. Alto e dolce e puro, levandosi al di sopra della morte e dell’oscurità e della sconfitta, risuonava il canto dell’allodola. Caramon smise di ascoltare, con le lacrime che gli pungevano gli occhi per la bellezza di quella canzone, e il dolore del suo cuore che si allentava.
La luce nei cieli d’oriente
è immobile, ed è sempre mattino,
e l’aria rinnova in se
stessa fede e struggimento.
E le allodole si levano come angeli
e come angeli le allodole ascendono
dall’erba illuminata dalla gloria del sole come gemme
nel vento cullante.
Ma proprio mentre il canto dell’allodola gli penetrava nel cuore con la sua dolcezza, un aspro gracidio lo fece sussultare, spaventandolo. Ali nere sbatterono intorno a lui e la sua anima si riempì di ombre.
La chiara luce a oriente
ricompone dalla tenebra
gli ingranaggi del giorno,
e il canto ora più fievole dell’allodola
ma i corvi cavalcano la notte
e l’oscurità dell’occidente,
il palpito d’ali dei loro cuori
trae echi in un nido sepolto.
“Cosa significa, Caramon?” chiese Tas, stupito e sgomento, mentre continuavano ad avanzare a tentoni attraverso la Foresta, sempre sospinti dagli alberi incolleriti.
La risposta a quella domanda giunse, non da Caramon, ma da altre voci, dolci, profonde, tristi, con l’antica saggezza del gufo.
Attraverso la notte le stagioni cavalcano dentro la tenebra, gli anni si arrendono alle luci mutevoli, il respiro si svuota all’imbrunire o all’alba, ma c’è sempre il papavero nei campi e i fuochi fatui sul cimitero, e a mezzogiorno inoltrato i rami più alti degli ombrosi vallenwood sfolgorano di luce.
“Significa che la magia è fuori controllo,” replicò Caramon con voce sommessa. “Qualunque forza di volontà controlli ancora questa Foresta, riesce a farcela a stento.” Rabbrividì. “Chissà cosa troveremo quando arriveremo alla Torre.”
“Se arriveremo alla Torre,” borbottò Tas. “Come facciamo a sapere che questi vecchi, orrendi alberi non ci stiano conducendo sull’orlo di un burrone?”
Caramon si fermò, ansando, per riprendere il respiro in quel terribile calore. La rozza gruccia gli affondava dolorosamente nell’ascella. Sentì che il ginocchio cominciava a irrigidirsi, perché non aveva potuto appoggiare il proprio peso sulla stampella. La gamba era infiammata e gonfia, e sapeva che non sarebbe riuscito ad andare avanti per molto. Anche lui si era sentito male, aveva vomitato per purgare il corpo dal veleno, e adesso stava un po’ meglio. Ma la sete era un tormento.
E, come Tas gli aveva ricordato, non aveva nessuna idea di dove quegli alberi li stessero conducendo.
Alzando la voce, con la gola inaridita, Caramon gridò con asprezza: “Par-Salian! Rispondimi, altrimenti non muoverò un altro passo! Rispondimi!”
Gli alberi esplosero in un grande clamore, i rami si scossero e ondeggiarono come se stesse soffiando un vento violento, anche se nessuna brezza rinfrescava la pelle febbricitante di Caramon.
La voce degli uccelli si levò in una spaventevole cacofonia, sovrapponendo, fondendo e deformando i loro canti in orribili, sgradevoli melodie che riempivano la mente di terrore e di cattivi presagi.
Persino Tas rimase un po’ scosso da tutto questo, e si strinse ancora di più a Caramon (nel caso in cui l’omone avesse bisogno d’essere confortato), ma Caramon rimase fermo e risoluto, gli occhi fissi sull’interminabile notte, ignorando il tumulto che lo circondava.
“Par-Salian!” gridò ancora una volta.
Poi, la risposta si fece udire: un grido sottile e acuto.
Un suono terribile. Caramon si sentì accapponare la pelle. Il grido trafisse l’oscurità e il calore. Si levò al di sopra dell’incredibile schiamazzo degli uccelli e soffocò lo schianto degli alberi.
Parve a Caramon che tutto il dolore e l’orrore di quel mondo morente fosse stato risucchiato e infine liberato in quell’urlo spaventoso.
“In nome degli dei,” bisbigliò Tas in preda al più vivo sgomento e afferrando la mano di Caramon (nel caso in cui l’omone fosse spaventato). “Cosa sta succedendo?”
Caramon non rispose. Poteva sentire la collera della Foresta diventare più intensa, mescolata però, adesso, a una paura e a una tristezza insopportabili. Gli alberi parevano pungolarli ancora di più perché proseguissero, spingendoli, sollecitandoli. L’urlo continuò per tutto il tempo che un uomo poteva impiegare a esaurire il proprio fiato poi cessò per lo spazio di tempo che un uomo avrebbe impiegato per riempirsi d’aria i polmoni, poi ricominciò. Caramon sentì ghiacciarsi il sudore su tutto il corpo.
Continuò a camminare, con Tas vicinissimo a lui. Il loro progredire era lento, peggiorato anche dal fatto che non avevano la minima idea se stessero o no facendo progressi, dal momento che non potevano vedere la loro destinazione, e neppure rendersi conto se stavano procedendo nella giusta direzione. L’unica guida che avevano per arrivare alla Torre era quel grido stridente e disumano.
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