Robert Silverberg - Gilgamesh

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Gilgamesh: краткое содержание, описание и аннотация

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Sono stati anni pieni di impegni e di soddisfazioni. Gli Dei sono stati benevoli verso Uruk e verso Gilgamesh che ne è il Re. La città prospera, le mura si ergono alte, abbiamo dipinto la Piattaforma Bianca con una nuova mano di gesso, e ora l’alta costruzione riluce al sole. Tutto va bene. Abbiamo ancora molti compiti da portare a termine, ma tutto va bene. Ora sono nella mia camera, nel palazzo, a incidere l’ultima tavoletta, perché penso che il racconto sia finito. Non cesserò di lottare — non lo farò mai — ma è scesa su di me una pace che non avevo mai conosciuto, e che mi è nuova. Non avevo pace nell’epoca di cui ho scritto, ma adesso sì. Ve l’ho detto: tutto va bene.

Fu abbastanza facile ridimensionare le troppo alte ambizioni di Meskiagnunna di Ur: fu la prima iniziativa dopo aver ripreso il potere. Gli inviai un messaggio che lo confermava Re di Ur, e che gli concedeva l’amministrazione di Kish, in quanto feudo aggiunto al suo regno. Egli sapeva che cosa intendevo dire quando accondiscendevo a lasciargli le città che già aveva sotto il suo dominio. «Ma Nippur e Eridu,» gli dissi, «le riservo per me, così come hanno decretato gli Dei: perché sono Città Sante, soggette al dominio del Re Supremo del Paese.»

Con questo messaggio gli comunicai il mio diritto alla supremazia. E contemporaneamente ordinai al mio esercito, che era sotto il comando del fedele Zabardi-bunugga, di entrare a Nippur e persuadere i soldati di Ur ad andarsene. Non vi andai di persona, perché avevo molto da fare a Uruk: scegliere una nuova Alta Sacerdotessa, per esempio, e istruirla correttamente, in modo da farle comprendere quale ruolo avrebbe avuto nel mio governo.

Mentre mi occupavo di queste faccende, Zabardi-bunugga riuscì a liberare Nippur, anche se con qualche piccolo danno. Gli uomini di Ur si rifugiarono nel Tummal, che è la casa di Enlil, e fu necessario abbattere le mura del Tempio per scacciarli. Ho mandato mio figlio Ur-lugal a ricostruire il Tummal, adesso che Nippur è nostra.

Questo è un periodo pieno dì impegni per me. In realtà, non ho mai un momento per riposare. Non mi piacerebbe se fosse diversamente. Che cos’altro c’è da fare, se non progettare, lavorare, costruire? È la salvezza della nostra anima. Ascoltate la musica nel cortile: l’arpista suona, e creando le sue melodie paga il prezzo della sua vita. Guardate l’orafo, chino sul suo tavolo. Il carpentiere, il pescatore, lo scriba, il Sacerdote, il Re: nel compiere i nostri doveri, tutti noi adempiamo ai comandamenti degli Dei, il che è il solo scopo per cui siamo nati. Ci ritroviamo gettati per il capriccio degli Dei in un mondo pericoloso, dove regna l’incertezza. In questo turbine dobbiamo cercarci un posto stabile e sicuro. Questo fine lo raggiungiamo con il lavoro, e il mio lavoro è fare il Re.

Così io lavoro, e il mio popolo lavora. I Templi, i canali, le mura della città, la pavimentazione delle strade: potremmo mai cessare di ricostruirli, ripararli e restaurarli? Questa è la vita. I riti e i sacrifici attraverso i quali respingiamo le impetuose forze del caos: potremmo mai cessare di compierli? Questa è la vita. Conosciamo i nostri compiti, e li eseguiamo, e tutto va bene. Ascoltiamo quella musica, la musica che l’arpista suona nel cortile! Ascoltiamola!

Presto — spero non troppo presto, ma sarò pronto in qualsiasi momento arrivi — comincerò l’ultimo viaggio. Scenderò nel tenebroso mondo da cui non c’è ritorno. I miei musici mi saranno accanto, insieme alle mie concubine, ai maggiordomi, ai valletti, agli auriga, ai giocolieri, ai menestrelli. Insieme faremo le nostre offerte agli Dei degli Inferi, a Ereshkigal e a Namtar, a Enki, a Enlil, a tutti coloro che governano il nostro destino. Così sia. Non mi turba più pensare a questa prospettiva. Non ho mai preso in considerazione l’idea di tornare a Dilmun per chiedere un’altra perla della pianta Torna-Giovane: non è questa la strada. Quel vecchio Sacerdote che si chiama Ziusudra cercò di dirmelo, ma io ho dovuto impararlo a mio modo. Ormai l’ho imparato.

La luce sta diminuendo. C’è il rito da eseguire stanotte sul tetto del Tempio, e devo affrettarmi: sono il Re, è il mio compito. Onoreremo Ninsun mia madre, che ho proclamato Dea l’anno scorso, in questo stesso giorno, quando la sua vita finì.

Già sento in lontananza i canti, e l’aroma della carne arrosto è già nell’aria. E, a questo punto, il mio racconto finisce. Ho parlato molto della morte, mia grande nemica, con la quale ho combattuto con tanta forza, ma non ne parlerò più. L’ho temuta molto. Ho vissuto con una terribile paura della sua ombra. Ma adesso ho fatto pace con la morte. Sono arrivato a capire la verità: non si sfugge alla morte con pozioni e magie, ma eseguendo il proprio compito. Così si arriva alla calma e all’accettazione.

Ho fatto il mio lavoro, e farò sempre di più. Il mio nome durerà nei secoli. Gilgamesh non sarà dimenticato. Non trascinerà tristemente le ali nella polvere. Mi ricorderanno al colmo della felicità e dell’orgoglio. Che cosa si dirà di me? Si dirà che ho vissuto, e ho vissuto bene, che ho lottato, e ho lottato bene, che sono morto, e sono morto bene. Ho temuto la morte come nessuno l’ha mai temuta, e sono andato ai confini del mondo per sfuggirle. Non ci sono riuscito, ma quando sono tornato non la temevo più. Questa è la verità. Adesso so che non abbiamo bisogno di temere la morte, se abbiamo adempiuto ai nostri doveri. E quando cessiamo di temere la morte, non c’è più morte. Questa è la verità che ho conosciuto: la morte non esiste.

FINE

Robert Silverberg e la hystorical fantasy

Silverberg non finisce mai di stupirci. Dopo anni e anni passati a scrivere fantascienza classica, tutto ad un tratto si è proiettato nel settore della Heroic Fantasy, dove ha dato prova di sé in diversi volumi e cicli di mole non certo indifferente. Non contento, ora si è cimentato in un altro settore della narrativa di fantasy, per essere esatti quell’Hystorical Fantasy che negli Stati Uniti tanto successo riscuote presso gli appassionati di ogni età.

In quest’ottica eccolo affrontare quella che è senza dubbio alcuno la leggenda di maggior respiro e più antica che sia dato di conoscere sul nostro pianeta: la leggenda di Gilgamesh e della sua ricerca dell’immortalità.

Storia, Leggenda e Mito, si fondono inestricabilmente in quest’epopea che affonda le sue origini nell’alba della storia dell’Uomo: non dobbiamo infatti dimenticare che il poema epico che narra delle avventure di Gilgamesh risale addirittura ad un migliaio d’anni prima della Bibbia.

Quest’opera di letteratura è sicuramente la più antica che sia sopravvissuta sino ai nostri giorni e, se viene dato per certo che è di mille anni antecedente ai poemi omerici dell’Iliade e dell’Odissea, molte sono le tesi che tendono a farla risalire ad un periodo ancora più antico. Il testo che ci è pervenuto è incompleto, ma comprende la storia nelle sue linee essenziali.

Varie versioni della stesura originale sono giunte sino a noi, e il fatto che siano oggi a nostre mani, è dovuto solo a pura fortuna. Comunque, la versione più lunga tra tutte quelle oggi note, fu trovata nel Diciannovesimo Secolo da alcuni archeologi nella grande biblioteca del famoso Re assiro, Assurbanipal e, a questo proposito, non dobbiamo dimenticare che gli Assiri furono gli ultimi eredi della grande cultura mesopotamica, molto tempo dopo che i Sumeri — i quali erano stati appunto i fondatori di questa cultura — erano stati assorbiti da razze più giovani e vigorose.

È opinione comune tra gli studiosi che il poema di Gilgamesh fosse stato inciso su tavolette d’argilla intorno al 700 a.C., comunque ne abbiamo anche una versione successiva — purtroppo in frammenti — scritta in babilonese, ossia la lingua di quel popolo che dominò le terre tra il Tigri e l’Eufrate dopo i Sumeri e prima degli Assiri. A titolo di cronaca, va annotato che del poema di Gilgamesh ne esiste anche una versione in lingua ittita (Siria), e questo ci dimostra come questa storia fosse diffusa in pratica in tutto l’Oriente. Comunque, sia le versioni che ho ora citate, sia diverse altre coeve e successive, risalgono tutte ad un testo sumerico originale che è andato perso.

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