Robert Silverberg - Gilgamesh

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Poi avvertii dentro di me la forte presenza di mio padre Lugalbanda. Non la sentivo da molto. Il Grande Re mi colmò lo spirito con la sua forza e mi diede molto conforto. Capii che non dovevo provare vergogna per quello che avevo fatto. Le azioni che avevo compiuto erano state decretate dagli Dei, ed erano giuste e opportune. Il mio dolore era stato necessario. Gli Dei avevano deciso di concedermi la saggezza: avevo semplicemente obbedito ai loro piani.

Non dubitavo più di essere ancora Re. Mandai subito il più anziano dei mercanti al palazzo del governatore di Eridu, per annunciargli che il suo Signore, Gilgamesh di Uruk, era arrivato in città e aspettava un’adeguata cerimonia di benvenuto.

Ordinai al mercante più giovane di andare a cercare un passaggio a bordo della successiva nave per Uruk, in modo da portare la notizia che il Re stava tornando dal suo viaggio. E mandai il terzo uomo a prendermi carne arrosto, vino e una prostituta dai seni alti, di sedici o diciassette anni; perché sentivo fluire di nuovo dentro di me la linfa della vita.

In tutto quell’oscuro periodo di vagabondaggi, dopo la morte di Enkidu, non mi riconoscevo più. Mi sentivo tagliato in due parti, e la parte che era Gilgamesh si era persa da qualche parte, lasciando solo il guscio: e io ero quel guscio. Ma ora il vigore, la potenza e la vita che costituivano Gilgamesh il Re, stavano ritornando in me.

Ero di nuovo me stesso. Ero Gilgamesh, intero e completo. Di questo ringraziai Enlil il Signore, An il Grande Padre, e Enki il Dio della città in cui mi trovavo. Ma più di tutti ringraziai il Dio Lugalbanda, dal cui seme ero nato. I Grandi Dei sono lontani, e noi siamo solo granelli di sabbia per loro. Lugalbanda, invece, mi era vicino, in quel momento e sempre.

39

A quel tempo, il governatore di Eridu era Shulutula, il figlio di Akurgal. Era un uomo di bassa statura, rotondo, con la pelle scura e un enorme naso tozzo. Eridu non ha Re; la monarchia scomparve da quella città molto tempo fa, prima del Diluvio. Ma, sebbene la sua condizione fosse solo quella di governatore, Shulutula viveva come un Re, in un grande palazzo, composto di due edifici gemelli, circondato da una muraglia immensa e doppia.

Mi ricevette con nervosismo, visto che ero arrivato nella sua città fuori stagione e che era stato preso alla sprovvista. Ma la sua natura era tranquilla e, non appena comprese che non ero andato a deporlo o a chiedergli una parte del suo tesoro, si rilassò notevolmente. Quella sera ordinò un grande banchetto per me, mi coprì di regali, di belle lance e di concubine. Mi regalò anche una statuetta di alabastro, della meravigliosa fattura, lunga quanto il mio braccio, con gli occhi incastonati di lapislazzuli e madreperla.

Parlammo fino a notte tarda. Sapeva che ero mancato da Uruk per qualche tempo, ma non osò chiedere né perché né dove fossi andato. Cercai di avere da lui il resoconto degli avvenimenti recenti della mia città, ma lui non poté o non volle dirmi molto, solo che aveva sentito dire che il raccolto era stato scarso e che c’era stato qualche allagamento lungo i canali durante la stagione dell’acqua alta. Ma l’oggetto delle sue preoccupazioni, chiaramente, non era Uruk ma Ur. Quella potente città, dopotutto, era solo a poche leghe da Eridu, e già Meskiagnunna aveva ingurgitato Kish e Nippur. Quale sarebbe stata la prossima, se non Eridu?

«Come si può dubitarne?», mi chiese Shulutula. «Sta cercando di ottenere il potere supremo su tutto il Paese.»

«Gli Dei non hanno concesso il potere supremo a Ur,» dissi.

Il governatore guardò con espressione cupa la coppa di vino.

«Si può esserne sicuri?»

«Non è possibile.»

«Un tempo il potere supremo era di Eridu, non è vero?», disse Shulutula. «Molti secoli fa, prima del Diluvio. Poi passò a Badtibira, a Larak, a…»

«Sì,» lo interruppi con impazienza. «Risparmiamelo. Conosco gli annali antichi anch’io.»

Sebbene il mio tono brusco lo avesse palesemente irritato, non si fece scoraggiare. Per questo mi piaceva.

«Ti chiedo perdono,» disse, e poi, con sorprendente audacia, continuò imperterrito: «… a Sippar e a Shuruppak. Poi arrivò il Diluvio, e tutto fu distrutto. Dopo il Diluvio, quando il potere regale discese di nuovo nel Paese, il posto in cui andò a risiedere fu Kish, non è vero?»

«D’accordo,» dissi.

«Meskiagnunna si è nominato Signore di Kish: allora non si potrebbe dire che il potere supremo è passato da Kish a Ur?»

Allora capii dove volesse arrivare.

Scossi la testa.

«No,» dissi. «Il potere supremo risiede a Kish, sì. Ma dimentichi qualcosa. Durante il primo anno del mio regno, Agga di Kish attaccò Uruk, fu sconfitto e fatto prigioniero. È chiaro che in quel momento il potere supremo passò da Kish a Uruk. Quando il Re di Ur conquistò Kish, prese solo un guscio vuoto. Il potere supremo non è più a Kish, è passato a Uruk. Dove tuttora risiede.»

«Allora tu sostieni che il Re di Uruk è Signore del Paese?»

«Ne sono più che certo.»

«Ma nei mesi scorsi non c’è stato Re a Uruk!»

«Tra breve ci sarà di nuovo un Re a Uruk, Shulutula,» gli dissi. Mi chinai in avanti fino a toccare con la punta del mio naso la zucca enorme che il governatore aveva al posto del suo naso, e dissi in un tono che non ammetteva incertezze: «Meskiagnunna può avere Kish se la vuole. Ma non gli lascerò tenere Nippur, perché è una Città Santa e deve essere libera. E ti dico anche questo: non avrà mai nemmeno Eridu. Non hai nulla da temere.» Poi mi alzai. Sbadigliai, mi stiracchiai, e riempii l’ultima coppa di vino. «Penso che abbiamo banchettato a sufficienza per stanotte. Il sonno mi chiama. In mattinata visiterò i Templi, poi comincerò il mio viaggio di ritorno a casa. Ti chiedo solo un carro, alcuni asini, e un auriga che conosca la strada per il nord.»

Parve sorpreso.

«Hai intenzione di andare per via di terra?»

Annuii.

«Darà al mio popolo più tempo per preparare la cerimonia di benvenuto.»

«Allora ti fornirò una scorta di cinquecento soldati, e tutto quello che puoi…»

«No,» dissi. «Un solo carro e gli animali per tirarlo. Un solo auriga. Non ho bisogno di altro. Gli Dei mi proteggeranno, Shulutula, come hanno sempre fatto. Andrò da solo.»

Gli fu difficile capire. Non riusciva a comprendere come io non avessi alcun desiderio di entrare in Uruk alla testa di un’armata di soldati stranieri. Volevo entrare nella mia città così come l’avevo lasciata, solo, senza timore. Il mio popolo mi avrebbe accolto perché ero il loro Re, non perché mi ero imposto, con la forza. Quando gli uomini vengono sottomessi con la forza delle armi, non sono sottomessi nell’anima, ma cedono solo perché non hanno scelta. Ma quando gli uomini vengono sottomessi con la forza del carattere, essi cedono con tutto il cuore, e si sottomettono completamente. Tutti i Re saggi lo sanno.

Perciò presi da Shulutula di Eridu solo quello che gli avevo chiesto: un carro e un auriga. Il governatore mi diede qualche provvista e una faretra di ottimi giavellotti, nel caso lungo la strada avessimo incontrato lupi e leoni ma, sebbene continuasse ansiosamente a cercare di persuadermi ad accettare una scorta, non cedetti.

Restai a Eridu altri cinque giorni. Dovevo compiere le purificazioni ai Templi di Enki e di An, e un rito privato in onore di Lugalbanda. Queste faccende mi tennero occupato tre giorni. Il quarto, secondo i Maghi di Shulutula, era un giorno sfortunato, perciò rimandai la partenza al quinto.

All’alba del quinto giorno partii per Uruk. Era il dodicesimo giorno del mese di Du’uzu, quando il pieno caldo dell’estate comincia ad invadere il Paese. L’auriga che mi fu dato era un uomo robusto, di nome Ninurta-mansum, che aveva forse trent’anni, e i primi peli grigi nella barba. Intorno al petto portava il nastro scarlatto con cui annunciava di aver dedicato la sua vita al servizio di Enki. In maniera strana, mi richiamava alla mente la cicatrice rossa che segnava il corpo del vecchio Namhani, l’auriga che aveva guidato il mio carro tanto tempo prima, quando ero un giovane Principe al servizio di Agga di Kish. La mia impressione era curiosamente giusta, perché il solo auriga che eguagliasse l’abilità di Namhani era proprio Ninurta-mansum: erano dello stesso genere. Quando tenevano le redini, era come se tenessero l’anima dei loro animali in mano.

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