Robert Silverberg - Gilgamesh

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Dissi, di nuovo insospettito: «Se dobbiamo partecipare insieme a questo rito, dobbiamo dividere tutto. Tu berrai per prima, e poi berrò io.»

Rovesciò la testa all’indietro con un gesto brusco, come se l’avessi schiaffeggiata.

«Non è possibile!», gridò.

«Perché?»

«Il vino… è per te, Gilgamesh…»

«Te lo offro. Dividilo con me, Abisimti.»

«Non mi è permesso!»

«Io sono il tuo Re. Te lo ordino.»

Strinse le labbra al petto e si rannicchiò. Stava tremando. Il suo sguardo non incontrò più il mio. Disse., così piano che la sentii appena: «No… per favore, no…»

«Bevi un sorso di vino prima che lo beva io.»

«No… ti prego…»

«Perché hai tanta paura, Abisimti? Questo vino è così santo che ti farebbe male?»

«Ti prego… Gilgamesh…»

Tesi la coppa verso di lei, poggiandola sulle sue labbra. Lei girò la faccia, serrò la bocca, per paura che tentassi di forzarla a bere. Allora fui certo del tradimento. Appoggiai a terra, accanto a me, la coppa, e mi tesi in avanti per afferrare Abisimti per un polso. Con calma dissi: «Pensavo che ci fosse amore tra noi, ma vedo che mi sbagliavo. Dimmi Abisimti, perché non vuoi bere il vino con me, e dimmelo sinceramente.»

Non rispose.

«Dimmelo!»

«Mio Signore…»

«Dimmelo!»

Scosse la testa. Poi, con una forza che mi stupì, si liberò della mia stretta e si girò di scatto. Il serpente si allarmò, si sciolse dalla sua vita e scivolò a terra. Un istante dopo, le vidi stringere in una mano un pugnale di rame. L’aveva preso da un cuscino che le stava alle spalle. Pensavo che volesse pugnalarmi, invece lo diresse contro il proprio seno. La afferrai per il polso e le allontanai dalla carne la punta della lama. Mi costò un certo sforzo, perché era in uno stato di frenesia e la sua forza era incredibile.

Lentamente, prevalse La mia forza. Allontanai il pugnale dal suo petto, glielo strappai di mano e lo lanciai dall’altra parte della stanza. Lei si avventò su di me come una leonessa. I nostri corpi si unirono, viscidi per il sudore, in una lotta violenta. Mi graffiò, mi morse. Singhiozzava e strillava e, mentre lottavamo, le sue dita si impigliarono nel laccio a cui era appesa la perla Torna-Giovane. Abisimti tirò. Sentii il laccio tendersi e bruciarmi sul collo come un fuoco. Poi il laccio si spezzò, la perla cadde e rotolò lontana da me.

Quando capii che cosa era accaduto, spinsi da parte Abisimti e inseguii carponi quella preziosissima gemma. Per un attimo non riuscii a vedere dove fosse caduta. Poi scorsi il bagliore della fievole luce riflettersi sulla sua superficie lucida. Era più o meno a un dozzina di passi da me. Ma anche il maledetto serpente di Inanna aveva visto la perla, e — solo gli Dei sanno il perché — stava strisciando lentamente verso la gemma.

«No!» esclamai, e balzai in avanti. Ma era troppo tardi. Prima che io arrivassi al centro della stanza, il serpente aveva raggiunto la perla e l’aveva presa con la bocca, così come una gatta tiene un gattino. Si girò per mostrarmi il bottino. Per un istante i suoi occhi gialli scintillarono dello scherno più maligno che avessi mai visto. Poi il serpente sollevò in alto la testa, aprì le mandibole e la perla gli scivolò nelle fauci. Se avessi potuto prendere quel serpente, l’avrei torto fino a fargli sputare la perla, ma, con mio grande orrore, l’oscena creatura si allontanò astutamente e strisciò verso l’apertura della tenda. Sulle mani e sulle ginocchia l’inseguii di corsa, ma non riuscii a prenderlo.

Era un animale furbissimo. Con delicatezza posò il muso sulla sabbia, si infilò nel terreno e in un attimo scomparve alla vista. Al suo posto restò qualche frammento di pelle macchiettata che aveva perso mentre scappava. Stava già abbandonando il suo vecchio corpo e stava subendo il rinnovamento fisico che era stato destinato a me. Tutta la mia fatica era andata perduta: ero arrivato in terre lontane solo per ottenere una nuova vita per il serpente. Per me non avevo guadagnato nulla.

Restai stordito per qualche attimo. Poi mi girai a guardare Abisimti. Mentre cercavo di riprendere la perla, lei aveva afferrato la coppa di vino e ne aveva bevuto un’ampia sorsata. Le guance le gocciolavano di vino. Si alzò in piedi con violenza, e mi guardò con tanto dolore e amore che mi spezzò il cuore. Ogni muscolo del suo corpo si contorceva ad un ritmo diverso: sembrava una donna posseduta da mille demoni.

«Capisci… non volevo farlo…», disse con voce rauca e bassa.

Poi la coppa le cadde dalle mani inerti e piombò a terra, ai miei piedi.

Pensai che sarei impazzito in quel momento, o che sarei stato preso dai tremiti di una convulsione. Ma ero stranamente calmo, come se la mia anima, tanto provata, si difendesse chiudendosi in se stessa, per rendermi vulnerabile. Abbassai gli occhi e vidi la macchia scura del vino sulla sabbia. Con calma, la coprii con altra sabbia finché non scomparve. Poi mi inginocchiai a chiudere gli occhi di Abisimti, a colei che era stata mandata ad uccidermi e che, invece, aveva dato la sua vita. Non sentivo rabbia nei suoi confronti, solo pietà e rimpianto: era una Sacerdotessa, aveva giurato di obbedire alla volontà della Dea. Ebbene, il suo giuramento a Inanna l’aveva condotta alla Casa della Polvere e delle Tenebre, dove anch’io avrei potuto trovarmi, se non fosse stato per l’espressione di paura e di vergogna che avevo scorto sul viso di Abisimti mentre mi porgeva il vino avvelenato. Ora se n’era andata. E anche la perla della pianta Torna-Giovane se n’era andata, in un attimo. Siduri l’ostessa aveva detto la verità: Non troverai mai la vita eterna di cui sei alla ricerca. Ma non importava. Ero stanco di inseguire un sogno. Lo scherno del serpente mi aveva dato la risposta: non era destinato ad essere, dovevo trovare un’altra strada.

Indossai la tunica, mi legai la spada al fianco e uscii dalla tenda. L’abbagliante luce del sole mi colpì gli occhi come un pugno. Ma dopo un attimo riacquistai la vista. Le tre Sacerdotesse di Inanna mi stavano davanti, senza fiato per la meraviglia: non pensavano di rivedermi vivo.

«Abbiamo compiuto il rito,» dissi in tono tranquillo. «Ora sono purificato di tutte le impurità. Andate dalla Sacerdotessa Abisimti: bisogna pronunciare le parole rituali per lei.»

Una delle Sacerdotesse disse, stupita, «Hai bevuto il Vino Sacro, allora?»

«Ho fatto una libagione alla Dea con il vino,» le dissi. «E ora entrerò nella città, e renderò omaggio alla Dea di persona.»

«Ma… tu…»

«Fatti da parte,» dissi con disinvoltura. Poggiai la mano sull’elsa della spada. «Fammi passare, altrimenti ti squarterò con un’oca arrosto. Fatti da parte, donna. Fatti da parte!»

Mi cedette il passo così come il buio cede il posto al sole del mattino. Si rimpicciolì, e scomparve quasi. La oltrepassai e mi diressi al carro in attesa. Ninurta-mansun venne verso di me, mi poggiò una mano sul polso e me lo strinse con forza. Gli occhi dell’auriga erano pieni di lacrime. Penso che nemmeno lui si aspettasse di rivedermi vivo.

Gli dissi: «Abbiamo finito quello che avevamo da fare qui. Andiamo a Uruk adesso.»

Ninurta-mansun prese le redini. Girammo intorno ai padiglioni dai colori vivaci e ci dirigemmo verso la Porta Alta.

Vidi la gente dietro i parapetti che mi guardava. Quando il carro arrivò al portale, la porta si spalancò e io fui ammesso nella città senza incontrare altri ostacoli. E così doveva essere: perché tutti sapevano che io ero Gilgamesh il Re.

«Vedi quella costruzione lassù?», dissi al mio auriga. «Dove si erge la Piattaforma Bianca, alla fine di questa grande strada? Lì sorge il Tempio di Inanna, il Tempio che ho costruito con le mie mani. Portami lì.»

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