Hal Clement - Luce di stelle

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Chi non ricorda il pianeta Mesklin e i suoi straordinari abitanti, costretti a vivere in condizioni di gravità proibitive per gli esseri umani? Gli eroi meskliniti di Hal Clement tornano in questo romanzo, in sé pefettamente autonomo, che è di fatto il secondo capitolo della saga iniziata con
(
), tenuto a battesimo in Italia proprio sulle pagine di URANIA. Ancora una volta la pazienza, il coraggio e le straordinarie caratteristiche fisiche dei meskliniti permetteranno loro di avere ragione di un mondo in cui la forza di gravità è così schiacciante da rappresentare da sola il più terribile e immediato dei pericoli. Senza contare le numerose incognite di questa nuova e inedita missione nello spazio, scritta da un maestro della tecnologica…

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— Se utilizzassimo i generatori per produrre corrente ne rimarremmo senza dubbio folgorati. Non so molto in effetti di elettricità perché al corso degli umani ho studiato soprattutto nozioni di meccanica, ma so che se viene usata male l’energia elettrica può uccidere. Forse è meglio pensare a qualcosa d’altro.

Takoorch si sforzò di farlo. Come il suo giovane compagno, aveva frequentato solo brevemente il corso di istruzione degli alieni. Entrambi avevano preferito partire volontari per Dhrawn piuttosto che continuare a stare in classe. La loro conoscenza della fisica di base poteva paragonarsi a quella di un bambino di nove, dieci anni. E non era molto incoraggiante pensare a soluzioni di cui non si conosceva l’applicabilità e il livello di rischio.

A tutti e due comunque la capacità di pensare in modo astratto non faceva difetto. Entrambi sapevano che il calore è la conseguenza più palpabile della presenza di energia, anche se non avevano nessun concetto del movimento casuale delle particelle che lo genera.

Fu Beetchermarlf il primo a ricordare un altro effetto dell’elettricità.

— Takoorch! Ti ricordi quando ci hanno detto di non dare troppa potenza fino a quando la Kwembly non cominciava a muoversi? Gli umani ci dissero che potevamo rompere i perni delle ruote o danneggiare i motori se acceleravamo troppo rapidamente.

— Esatto. Potenza a un quarto è il limite massimo consentito all’avvio.

— Bene. Qui abbiamo i comandi dei motori, ancora raggiungibili, e la Kwembly è bloccata. Perché non diamo energia al motore e lo facciamo scaldare quanto più possibile?

— Cosa ti fa pensare che diverrà caldo? Non hai la minima idea di cosa faccia funzionare questi motori, proprio come me. Gli umani non hanno detto che il motore diverrà caldo, ma solo che è possibile danneggiarlo.

— Lo so, ma che altro può succedere? Sai anche tu che qualsiasi tipo di energia inutilizzata finisce col generare calore in un modo o nell’altro.

— Sarà, ma non mi convince molto — rispose il marinaio più anziano. — Comunque, immagino che valga la pena di provare qualsiasi cosa… non so però se bruciare un motore può danneggiare seriamente la Kwembly; è la mia unica preoccupazione, perché noi saremmo spacciati comunque e quindi…

Beetchermarlf rimase silenzioso per un po’. Non aveva pensato al rischio di danneggiare la Kwembly e con più ci pensava con più si convinceva di non avere il diritto di fare una cosa del genere. Osservò la piccola unità motore alloggiata tra le ruote della serie più vicina e si domandò se una cosa tanto piccola poteva veramente mettere in pericolo l’esistenza di una massa tanto grossa come quella sotto cui si trovavano bloccati. Poi ricordò la massa enorme della macchina umana che aveva portato lui e i suoi compagni su Dhrawn e capì che la misteriosa energia che riusciva a smuovere simili grandiosi oggetti e a condurli attraverso i cieli non poteva venir usata a casaccio. Non avrebbe più avuto paura di usare motori e generatori, visto che gli era stata offerta l’opportunità di conoscerne i principi, ma compiere degli esperimenti con essi era tutt’altra cosa.

— Hai ragione — ammise con un sospiro e in modo casuale. Dopotutto, Takoorch sembrava propenso ad accettare l’idea. — Però ascolta — continuò. — Se le ruote potessero girare liberamente non correremmo il rischio di danneggiare i perni o il motore, vero? Credo che l’acqua si riscaldi anche limitandosi a smuoverla.

— Davvero? In effetti credo di aver già sentito una cosa del genere, ma se non riusciamo a rompere questo ghiaccio con la nostra forza dubito che smuovendo un po’ d’acqua riusciremo a ottenere qualcosa di concreto. E poi le ruote non sono affatto libere: poggiano sul fondo con sopra tutto il peso della Kwembly.

— Be’, prima volevi scavare, no? Bene, possiamo incominciare; quella parete di ghiaccio si fa sempre più vicina.

Beetchermarlf diede l’esempio e cominciò a scavare attorno ai sassi arrotondati che sporgevano da sotto le ruote. Era un lavoro duro persino per i loro muscoli. Lisci e compressi com’erano, i grossi ciottoli venivano via tutt’altro che facilmente. Inoltre, lo spazio per riporli non era certo abbondante. Inoltre i sassi sotto le ruote, che erano quelli da asportare, non potevano venir raggiunti fino a quando rimanevano bloccati sui lati. I due lavorarono con foga per rimuovere prima possibile i ciottoli più esterni, spaventati dalla lentezza con cui il lavoro sembrava procedere.

Una volta scavato abbastanza, cominciarono a rimuovere i ciottoli sotto le ruote solo per scoraggiarsi ancora di più davanti alla difficoltà del lavoro.

La Kwembly pesava sulla Terra circa duecento tonnellate. Su Dhrawn questo significava circa ottomila tonnellate, che venivano distribuite ogni istante sulle cinquantasei ruote rimaste. Pertanto ogni ruota sopportava un peso di più di centoquaranta tonnellate: un po’ tanto per la forza di un mesclinita che pesava su Dhrawn circa centocinquanta chili. Impossibile sollevare un peso del genere addirittura con otto metri della migliore fibra su Mesklin. D’altro canto, se la gravità di Dhrawn non avesse provveduto a comprimere in modo incredibile la superficie del pianeta, probabilmente la Kwembly sarebbe sprofondata nel terreno dopo pochi metri di viaggio.

Insomma, i sassi sotto le ruote non venivano via. I due marinai non poterono fare molto per smuoverli. Non avevano nulla da usare come leva, il gran numero di corde sottomano era inutile senza una puleggia e i loro muscoli figuravano tremendamente inadeguati allo scopo, una situazione a cui i mescliniti non riuscivano a rassegnarsi come le razze più deboli abituate da molto tempo all’uso di artifici meccanici. Il fatto che il loro spazio vitale si restringesse sempre più rappresentava però uno stimolo formidabile. Poteva certo generare il panico; ma i mescliniti non conoscevano quella forma di autoannullamento e sfogavano l’apprensione inondando la mente di pensieri. Di nuovo, fu Beetchermarlf a proporre qualcosa.

— Takoorch, vai dall’altra parte della serie di ruote passando da sotto. Voglio provare a smuovere quelle pietre. Allontanati un po’, perché verranno proiettate da quella parte — disse, arrampicandosi su una coppia di ruote mentre parlava. Takoorch capì immediatamente cosa aveva intenzione di fare il compagno e si riparò dietro la serie successiva senza obiettare. Beetchermarlf si distese davanti alla nicchia del generatore. Ora davanti a lui, inserito in uno spazio vuoto, poteva vedere il motore. Questi era un oggetto rettangolare grande circa quanto una radio con delle aste di guida bordate alla cima che si proiettavano dalla superficie e degli occhielli sui bordi dotati di piccole pulegge. Alle pulegge e alle aste erano connesse le funi per la guida dall’interno, ma il timoniere le ignorò. Non riusciva a vedere granché perché la pila era rimasta sul fondo, a qualche metro di distanza, e le ruote gli facevano ombra. In ogni caso non aveva bisogno di luce: anche con le chele poteva sentire quali leve muovere.

Con cautela portò la leva del reattore principale in posizione di “attivo”. Poi, ancora più lentamente, avviò il motore. Questi partì immediatamente: la doppia fila di ruote prese a muoversi in avanti e un rumore di piccoli oggetti scagliati qua e là divenne per un istante udibile. Poi il rumore cessò e il motore cominciò a surriscaldarsi. Subito Beetchermarlf lo disattivò e scese per vedere cosa era successo.

Il piano aveva funzionato bene quanto un programma di computer contenente un piccolo errore di logica: il responso avveniva, ma non risultava mai soddisfacente. Come previsto dal timoniere, il movimento delle ruote aveva proiettato all’indietro i sassi sottostanti, ma i due si erano scordati l’effetto della ripartizione del peso sulle varie serie di ruote. Semplicemente, la serie era sprofondata sotto il proprio peso e la spinta in avanti a vuoto aveva accentuato il ribaltamento del telaio centrale che manteneva in posizione le singole coppie di ruote. Guardando dal basso in alto, Beetchermarlf poté notare la leggera distorsione al telaio che assumeva l’aspetto di un rigonfiamento in un punto centrale, come se avesse preso una botta.

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